Svevo, Italo Pseudonimo d’Ettore Schmitz (Trieste 1861 - Motta di Livenza, Treviso 1928), scrittore italiano, di padre renano e di madre italiana; e scegliendo questo pseudonimo, egli vuole indicare la stretta unione fra tradizione italiana e tedesca che dichiara di avere in comune con Trieste. La cui opera costituì un momento di passaggio tra le esperienze del decadentismo italiano e la gran narrativa europea dei primi decenni del Novecento. La coscienza di Zeno, in particolare, avrebbe influenzato la narrativa italiana degli anni Trenta e del dopoguerra. Di famiglia ebraica, Svevo riuscì, grazie anche alle caratteristiche culturali di una città come Trieste, allora parte dell'impero austro-ungarico, ad assimilare una cultura mitteleuropea, che gli consentì di acquisire uno spessore intellettuale raro negli scrittori italiani del tempo. Trieste era considerata una città aperta, per la sua posizione geografica e politica. Abitata da diversi gruppi etnici: oltre agli italiani, in maggioranza, sono numerosi gli slavi e i tedeschi, ebrei, croati, greci e levantini. Linguisticamente l’unità è costituita dal dialetto triestino, ma la campagna circostante parla sloveno e la lingua ufficiale, quella della burocrazia è il tedesco. L’identità di Trieste è quella di una città borghese, dedita ai commerci. Al centro di questa sua formazione stanno da una parte la conoscenza della filosofia tedesca (soprattutto di Nietzsche e Schopenhauer) e della psicoanalisi di Freud e, dall'altra, l'interesse per i maestri del romanzo francese, da Stendhal a Balzac fino al naturalismo di Zola, e per i grandi narratori russi quali Gogol', Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij e Čechov.Parlando de “La Coscienza di Zeno” è Svevo a notare come alla lettura di Freud fosse stato spinto dal fatto di vivere in Austria, dove operava l’inventore della psicoanalisi. Svevo compì o approfondì queste letture nel tempo libero che gli lasciava il suo lavoro d’impiegato in banca, iniziato nel 1880 dopo il fallimento della ditta paterna. Intanto collaborava come critico teatrale e letterario a "L'indipendente", giornale triestino sul quale nel 1890 comparve a puntate la sua novella "L'assassinio di via Belpoggio". La sua esperienza d’impiegato gli ispirò la prima opera pubblicata in volume, Una vita (1892). Il romanzo, che portava in origine il titolo "Un inetto", è incentrato sul personaggio di Alfonso Nitti, incapace di adattarsi alle leggi e all'ambiente dell'ufficio e infine sconfitto dalla sproporzione tra le alte aspirazioni (la pubblicazione di una grande opera, il successo in società) e la sua incapacità di tradurre l'ideale in azione. Il romanzo successivo porta il titolo Senilità (1898), dove il riferimento non è al dato anagrafico bensì alla patologica vecchiaia psicologico-morale di Emilio Brentani. Questa seconda figura sveviana dell' "inetto" è circondata da altri personaggi che acquistano nuovo spessore rispetto al romanzo precedente: la sorella Amalia, malinconica e "incolore"; Stefano Balli, scultore di poca fama ma uomo energico nella vita e fortunato con le donne; e la procace, sensuale ed esuberante Angiolina. Emilio, letterato di scarso successo, prende a modello l'amico Balli e, nel tentativo di riscattare la mediocrità e il grigiore della propria vita, intreccia con Angiolina una relazione che si rivelerà fallimentare per l'incapacità di Emilio di tradurre in pratica la lezione dell'amico e per la tenacia con cui proietterà nella donna i propri sogni idealizzanti. L'insuccesso dei primi due romanzi indusse Svevo a circa vent'anni di silenzio letterario, ma, nonostante le responsabilità imposte dalla sua nuova posizione di dirigente nella ditta di vernici del suocero, Svevo non cessò del tutto di coltivare la letteratura, come testimoniano alcuni suoi racconti: l'inizio della stesura della Madre, ad esempio, risale al 1910, sebbene il racconto sia stato pubblicato postumo, nel 1929, nella raccolta "La novella del buon vecchio e della bella fanciulla"; e prima del 1912 si colloca anche la scrittura di alcune delle prose brevi raccolte nel volume “Corto viaggio sentimentale”, pubblicato nel 1949. Dissesti familiari indussero lo Svevo ad impiegarsi prima in una banca, poi nell’industria di vernici sottomarine dei parenti della moglie. Lo scarsissimo eco ottenuto dai primi componimenti lo dissuase addirittura dal continuare a comporre. Tuttavia, proprio in questo lungo corrucciato silenzio, egli maturò dentro di sé i suoi temi, e arricchì la sua cultura assorbendo a fondo lo spirito del decadentismo europeo; notevole importanza ebbe la relazione con James Joyce, che allora dimorava a Trieste, dal quale nel 1903 prese lezioni d’inglese, con il quale rimase sempre in amicizia, e il quale, più tardi si fece primo banditore della fama dell’amico italiano. Nell’opera di Svevo troviamo la coscienza tragica della crisi che caratterizza la civiltà del Novecento, la meditazione sull’impotenza dell’uomo, sulla senilità, sulla morte, sulla propria “indifferenza per la vita”. Fu durante la prima guerra mondiale che Svevo cominciò ad elaborare La coscienza di Zeno (1923), unanimemente considerato il suo capolavoro. In questo romanzo l'autore sviluppa un'analisi psicologica di straordinaria profondità e costruisce tecniche narrative modernissime, soprattutto per la tradizione del romanzo italiano. La prima pagina, scritta nella finzione letteraria dallo psicoanalista di Zeno, presenta la narrazione come un'autobiografia del paziente, una rievocazione del passato richiesta dal medico come tappa preliminare alla terapia analitica. Attraverso la rappresentazione interiore della nevrosi del protagonista e narratore, l'autore riesce a rendere la soggettività del pensiero e dei ricordi, in una narrazione che appare ormai quasi completamente svincolata dalle convenzioni realistiche ottocentesche. Ma la novità di Svevo sta anche nella sua dissacrante ironia, nella costruzione di un protagonista radicalmente antitragico e antieroico. Furono Eugenio Montale e Joyce ad avviare la "scoperta" di Svevo, il primo pubblicando nel 1925 Omaggio ad Italo Svevo sul periodico milanese "L'Esame" e il secondo parlando dello scrittore triestino agli amici Benjamin Crémiex e Valéry Larbaud, che nel 1926 dedicarono a Svevo un numero della rivista parigina "Le Navire d'Argent". Tuttavia la fortuna critica ebbe consacrazione ufficiale un anno dopo la morte dello scrittore - avvenuta in un incidente automobilistico - con un numero speciale dedicato a lui dalla rivista fiorentina di letteratura "Solaria". Svevo non condivise pienamente le teorie freudiane, accettandone solamente quelle che confermavano quanto lui già pensava della psiche umana; il suo rapporto con la psicanalisi può essere definito duale, infatti, da un lato egli ne fu affascinato, poiché n’apprezzava l'attenzione riservata ai gesti quotidiani più banali (lapsus, vuoti di memoria.); d'altro canto Svevo fu turbato dalla psicoanalisi, perché l'analisi dell'inconscio spesso porta il soggetto a prendere coscienza di verità rimosse, e quindi molto sconvolgenti, ma anche perché diffidava della possibilità di guarire le malattie psichiche con qualsiasi mezzo. Per questi motivi Svevo decise di seguire la teoria psicoanalitica non tanto come terapia medica ma come mezzo letterario; l'analisi psicologica diventa l'argomento principale dei suoi romanzi, e questa analisi è resa dal punto di vista letterario con il "flusso di coscienza", reso grazie alla tecnica del monologo interiore che consiste nel narrare le idee del personaggio così come si presentano alla sua mente, senza cercare necessariamente un legame logico fra le cose narrate, ma raccontando per "associazione d’idee", come avviene realmente nella nostra psiche. Un altro elemento che Svevo rese dalle tesi di Freud fu la coscienza della complessità della psiche umana: ogni singolo individuo è quello che è e causa delle innumerevoli esperienze che ha vissuto durante la sua esistenza, e fra queste un ruolo fondamentale lo ha la società per questo motivo Svevo analizza la società a partire dalla psiche dei suoi personaggi e può quindi criticarne i difetti, cosciente del fatto che essa non dice sempre la verità e possiede degli aspetti di cui il soggetto non ha piena padronanza. Proprio l’episodio del funerale di Guido (nella “Coscienza di Zeno”) e l’errore compiuto da Zeno, che segue un feretro sbagliato, rappresentano il culmine della lunga serie di dimenticanze, lapsus e atti mancati che scandiscono il racconto di Zeno e che devono essere ricondotti all’analisi di Freud. Si può osservare che Svevo consideri Freud più interessante da un punto di vista “letterario” che “medico”.
Il nome "Italo Svevo" è uno pseudonimo creato da Ector Schmitz per due motivi: distinguere l'impiegato (Ector) dal letterato (Italo), ma soprattutto per evidenziare la multietnicità delle sue origini, egli, infatti, unì in sé le culture italiane, tedesca, ebrea e slava. Questa sua peculiarità gli permise di conoscere e apprezzare diverse culture, ma a ciò contribuì anche la città in cui egli visse: Trieste, appartenente all'Impero Austro-Ungarico, ma al confine con l'Italia e la Jugoslavia, un crocevia commerciale e culturale. Trieste ebbe un ruolo fondamentale nella formazione di Svevo, ispirando e limitando al tempo stesso il suo modo di vedere la vita e l'arte: fu ispiratrice fornendogli diverse culture cui fare riferimento e fornendogli anche una serie di problematiche su cui riflettere, ma lo limitò, appunto perché le problematiche che offriva potevano essere capite solo se viste entro i limiti di Trieste stessa, caratterizzata da un forte provincialismo. Nello studio di Svevo non bisogna però sottovalutare un altro aspetto importante: il suo ebraismo, Italo fu ebreo fin dalla nascita, ma questa sua fede non appare nelle sue opere, quasi come se egli nello scrivere rinunciasse ad una parte fondamentale di sé, risultando meno vero da un punto di vista artistico; in realtà Svevo non nascose il proprio ebraismo, egli era talmente amalgamato nella cultura triestina, si sentiva talmente accettato in un clima culturale così aperto, da non aver bisogno di sottolineare quest’aspetto della sua vita. In realtà, osservando bene, si possono sì scorgere nelle opere di Svevo alcuni elementi che potrebbero richiamare il suo ebraismo: la passività, l'inettitudine e la femminilità dei suoi personaggi, tutti ritratti tipici della psicologia ebraica. Le opere di Svevo furono inizialmente dei grandi fallimenti, forse perché andavano contro i gusti del tempo, stimolando i lettori ad osservarsi, confrontarsi con personaggi scomodi, perché mostrano difetti e problemi comuni a tutti. Il periodo in cui Svevo scrisse era caratterizzato da una profonda crisi sociale (la "crisi delle certezze"), dovuta alla perdita d’importanza del positivismo e alla crisi della borghesia. Egli decise di parlare e descrivere l'uomo in crisi, così com'era, dandone un'immagine in cui gli uomini del suo tempo obbligati a riflettere su se stessi non amarono rispecchiarsi. La tipologia che ne emerge è quella dell'"inetto", che costituisce il tema cardine di tutta l'opera sveviana, in pratica dell'uomo incapace, che non sa vivere e realizzare i suoi progetti. L'inettitudine dell'uomo, secondo Svevo, è una debolezza interiore che rende inadatti alla vita, e caratterizza tutti coloro che sono nella società borghese, ma si distinguono da lei come dei diversi, soprattutto perché non ne condividono i valori come il culto del denaro e del successo personale. Questo non riuscire ad adattarsi alla società diventa negli individui una vera impotenza psicologica, perché non riesce più ad identificarsi con la figura vincente tipica della borghesia, e si auto-esclude, rifugiandosi in mondi fittizi (grazie alla letteratura) e vedendo in ogni altro uomo un antagonista. L'inetto diventa dunque colui che sa osservare il mondo dal di fuori, e può criticarlo, evidenziandone i difetti, minando alla base le certezze che lo guidano, e per questo diventa un personaggio positivo, grazie al quale si possono dedurre gli elementi negativi della vita. Svevo sostiene che i veri malati sono coloro che hanno delle certezze immodificabili su cui basano la propria esistenza e che non sanno analizzare se stessi, pertanto il confine fra sanità e malattia si assottiglia notevolmente, in un clima di malattia universale, in cui tutto è soggetto ad una generale degradazione. L’individuo scopre di possedere aspetti di cui neanch’egli è pienamente cosciente, tutto ciò rende il soggetto "multisfaccettato" e non più unico, ma è questa sua complessità che lo rende degno di interesse letterario. L’autore vuole fornire una rappresentazione della solitudine e dell'aridità degli individui che avvertono con disperazione la loro incapacità di aderire alla vita. Della vita dell'uomo gli interessano non i rapporti sociali, ma gli impulsi più segreti e oscuri, che paralizzano, ovvero gli aspetti dissociati e contraddittori del pensiero e dell'agire. Nei suoi romanzi appare evidente che la solitudine e l'alienazione dei protagonisti sono manifestazioni di una "malattia mortale" che corrode non solo i singoli individui, ma l'intera società borghese, per cui non c'è alcuna speranza che la situazione possa migliorare. Svevo si inserisce perfettamente in questa scoperta dell'inconscio (fatta da Freud), che è la strada anche di Proust e di Joyce, ed è questa la vera novità del suo romanzo. Svevo s'interessò molto di psicanalisi freudiana, che era stata divulgata negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, ma il suo interesse è caratterizzato da uno spirito polemico e sottilmente ironico nei confronti di questa nuova disciplina. La psicanalisi viene vista come una terapia cui il protagonista dell'ultimo romanzo si sottopone scetticamente, per giungere, quasi contro questa stessa terapia, a ricostruire da solo le motivazioni profonde del suo comportamento. La prosa di Svevo è caratterizzata da costrutti e da vocaboli estranei alla lingua italiana e da “durezza” espressiva che suscitano delle riserve nei lettori, egli deve essere analizzato facendo riferimento alla sua particolare formazione linguistica nel contesto triestino. A Trieste i ceti borghesi parlavano un dialetto di origine veneta nella vita quotidiana e usavano il tedesco per l’attività economica e i rapporti amministrativi con l’impero austro-ungarico. La sua formazione si manifesta nelle opere con l’oscillare da un repertorio lessicale ricercato e libresco all’uso del parlato, in cui ricorrono germanismi, dialettismi, termini di carattere burocratico-commerciale. A modelli toscaneggianti si alternano costruzioni di derivazione tedesca. Gli studi critici più recenti concordano tuttavia nel riconoscere che il “barbarismo linguistico” di Svevo non diminuisce la sua efficacia espressiva ma, tranne in pochi casi, la esalta. Il linguaggio diventa infatti strumento per una rappresentazione immediata, disadorna e impietosa di quanto si presenta o accade nell’animo del protagonista.