La figlia di Iorio è una tragedia in tre atti del 1903 di Gabriele D'Annunzio. L'autore, che proprio l'anno precedente aveva realizzato alcuni dei suoi capolavori lirici come Alcione, si distaccò da Eleonora Duse e piombò in una spirale di lussi e di debiti. Affrontò, dopo il successo della Figlia di Iorio, un breve periodo di difficoltà creativa ed artistica. Lo stesso d'Annunzio scrisse in una lettera al pittore Michetti, amico e corealizzatore della trama: "Tutto è nuovo in questa tragedia e tutto è semplice. Tutto è violento e tutto è pacato nello stesso tempo. L'uomo primitivo, nella natura immutabile, parla il linguaggio delle passioni elementari. La prima rappresentazione avvenne al Teatro Lirico di Milano il 2 marzo 1904 con la compagnia teatrale di Virgilio Talli ed ebbe enorme successo. La protagonista avrebbe dovuto essere Eleonora Duse, la cui relazione sentimentale con D'Annunzio era già in crisi, ma l'attrice si ammalò e il poeta non volle attendere il tempo necessario alla guarigione, così affidò la parte di Mila ad Irma Gramatica. Da alcune testimonianze risulta che la Duse non abbia mai dimenticato il dolore per quel torto subito.
Gli altri interpreti erano Ruggero Ruggeri (Aligi), Teresa Franchini (Candia della Leonessa), Oreste Calabresi (Lazaro) e Lyda Borelli. Le scene e i costumi vennero affidate all'artista Francesco Paolo Michetti. La prima rappresentazione in Abruzzo, e fu un vero trionfo: si tenne il giorno 23 giugno dello stesso anno al Teatro Marrucino di Chieti, città alla quale l'autore donò il manoscritto originale della tragedia. La vicenda è ambientata in Abruzzo, nel giorno di San Giovanni, nel borgo montano di Taranta Peligna. La famiglia di Lazaro di Roio del Sangro sta preparando le nozze del figlio Aligi; l'atmosfera è gaia grazie ai canti e ai dialoghi allusivi ed effervescenti delle tre sorelle. Aligi pare comunque turbato da strane sensazioni e da presagi e si esprime in un linguaggio onirico. Mentre la cerimonia nuziale sta procedendo con un frammisto di riti rurali, ancestrali, pagani precristiani, irrompe nella casa Mila di Codro (la figlia di Iorio, un mago) per cercarvi rifugio; lei è una donna dalla cattiva fama, ma è costretta a fuggire per evitare le molestie di un gruppo di mietitori ubriachi. Quando Aligi, incitato dalle donne presenti al matrimonio, sta per colpirla, viene fermato dalla visione dell'angelo custode e dai pianti delle sorelle. Aligi riesce persino a convincere i mietitori a rinunciare alla loro preda. Mila e Aligi finiscono per convivere assieme in una caverna pastorale in montagna (la Grotta del Cavallone); la loro unione non è peccaminosa e anzi sperano ardentemente di recarsi a Roma per ottenere la dispensa papale e poi sposarsi felici e contenti.
Ma non è una favola, né tanto meno una storia a lieto fine, anzi la situazione precipita rapidamente: Ornella, una sorella di Aligi, addolora profondamente Mila con il racconto sullo stato di disperazione in cui è caduta la sua famiglia, dopo la partenza di Aligi. Mila decide allora di fuggire, ma viene fermata da Lazaro che cerca di sedurla con la forza; Aligi interviene a difendere la donna e nasce così una colluttazione tra padre e figlio che terminerà con la morte del primo. Aligi evita la condanna solo per l'autoconfessione di Mila, che si addebita ogni colpa, autoproclamandosi strega. La giovane verrà condotta alla catasta per morire sulle fiamme.
L'autore stesso, nella lettera a Michetti, descrisse perfettamente le motivazioni e gli intenti dell'opera. Rivivere le sue radici della terra natale, nell'intento di eternare le figure pastorali antiche, grazie alla scoperta dell'immutata sostanza della natura umana. L'autore ricerca oggetti come utensili, suppellettili che abbiano l'impronta della vita vera, e nel tempo medesimo vuole diffondere sulla realtà dei quadri un velo di sogno antico. Perciò è proprio un sogno antico che riconduce il poeta alla sua terra d'origine, che nell'opera viene riportata ad uno stadio primitivo ed innocente, caratterizzato da usi e costumi arcaici. È infatti alla natura aspra della sua gente che il poeta salda la tragedia del destino. È un'opera variegata pervasa dal filo conduttore della musicalità dannunziana. Ecco perché sembra quasi rientrare nella normalità delle cose, la vicinanza della frase ricercata e colta con la filastrocca invece basata su temi popolari; oppure il tono realistico alternato a quello trasognato, indefinito e misterioso. Lo stesso poeta definirà il suo verso come: "intero, senza spezzamenti, semplice e diritto, entra nell'anima e vi resta". Le critiche, sia quelle contemporanee alla realizzazione dell'opera sia quelle successive, sono state, generalmente, positive. Scrisse il Paratore: «È l'unica opera del poeta, che pur concedendo il debito posto al furore dei sensi, si solleva in un clima in cui i palpiti dell'umana passionalità vibrano di una risonanza universale». Rileva invece Umberto Artioli: «Nei paesaggi-stati d'animo, negli oggetti-emblemi, nei personaggi che solidarizzano o si contrappongono come frammenti di un'unica individualità scissa in se stessa ed affiorante sulla scena in una pletora di sembianti diversi, circola quel che gli espressionisti definiranno Ich-Drama: un'opzione drammaturgica a fondamento allegorico in cui l'eredità romantica, prende quota su un impianto di sapore medievale».
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