Gabriele D'Annunzio, all'anagrafe Gabriele d'Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1º marzo 1938), è stato uno scrittore, poeta, drammaturgo, militare, politico, giornalista e patriota italiano, simbolo del Decadentismo e celebre figura della prima guerra mondiale, dal 1924 insignito del titolo di "principe di Montenevoso". Soprannominato "il Vate", cioè "poeta sacro, profeta", cantore dell'Italia umbertina, o anche "l'Immaginifico", occupò una posizione preminente nella letteratura italiana dal 1889 al 1910 circa e nella vita politica dal 1914 al 1924. È stato definito «eccezionale e ultimo interprete della più duratura tradizione poetica italiana […]» e come politico lasciò un segno nella sua epoca e un'influenza sugli eventi che gli sarebbero succeduti. L'arte di D'Annunzio fu così determinante per la cultura di massa che influenzò usi e costumi nell'Italia -e non solo- del suo tempo: un periodo che più tardi sarebbe stato definito appunto "dannunzianesimo". La vita di D’Annunzio può essere considerata una delle sue opere più interessanti: secondo i principi dell’estetismo, bisognava fare della vita un’opera d’arte e D’Annunzio fu costantemente teso alla ricerca di questo obiettivo, oltre che molto attento al pubblico a cui “tale opera”, quello che viveva, era destinato. Per questo motivo i suoi dati biografici meritano particolare attenzione. Nato a Pescara nel 1863 da agiata famiglia borghese, studiò in una delle scuole più aristocratiche dell’Italia del tempo, Il collegio Cicognini di Prato. Il cognome D’Annunzio gli derivò dal fatto che il padre era da poco stato adottato da uno zio e aveva voluto onorarne la memoria e la cospicua eredità. Trascorse un’infanzia felicissima tra numerosi fratelli e sorelle, dai quali si distinse subito per vivacità, intelligenza e fascino. La sua fu dunque una vita che fin dall’inizio si delineò come quella di un vincente: carisma personale, enorme fiducia nelle proprie capacità, studi adeguati al suo rango. Amori, ardori e sensazioni sempre sopra le righe, puntualmente registrate in lettere e diari. Nel 1881 conseguì la licenza d’onore alla fine degli studi liceali e precocissimo, esordì sedicenne con la sua prima raccolta poetica, Primo vere, che suscitò una certa risonanza e ottenne benevola attenzione anche dai letterati di fama. A diciotto anni si trasferì a Roma, si iscrisse all’università, che peraltro non frequentò mai, preferendo vivere tra salotti mondani e redazioni di giornali. Acquistò notorietà sia attraverso una copiosa produzione di versi, di opere narrative e articoli giornalistici, sia con una vita altrettanto scandalosa per i principi morali dell’epoca, fatta di continue avventure galanti, lussi e duelli. Sono questi gli anni in cui D’Annunzio si creò la maschera dell’esteta dell’individuo superiore, dalla squisita sensibilità, che rifugge inorridito dalla mediocrità borghese, rifugiandosi in un mondo di pura arte, che disprezza la morale corrente e accetta come regola di vita solo il bello. Questa fase estetizzante della sua vita attraversò una crisi negli anni ’90, riflettendosi anche nella tematica della produzione letteraria. D’Annunzio cercò nuove soluzioni, e le trovò in un nuovo mito, quello del superuomo, ispirato approssimativamente alle teorie del filosofo tedesco Nietzsche, un mito non solo più di bellezza ma di energia eroica. Nella realtà, però, D’Annunzio cercava di creare l’immagine di una vita eccezionale: il vivere inimitabile, sottratto alle norme del vivere comune. Colpiva soprattutto la fantasia del pubblico borghese la villa della Capponcina, sui colli di Fiesole, dove D’Annunzio conduceva una vita da principe rinascimentale, tra oggetti d’arte, stoffe preziose, cavalli e levrieri di razza. A creargli intorno un alone di mito contribuivano anche i suoi amori: Maria Nardovin, prima moglie dalla quale ebbe due figli, Barbara Leoni (1887), ed il più lungo e tormentato, che lo lega alla grandissima Eleonora Duse. Realmente D’Annunzio era legato alle esigenze del sistema economico del suo tempo, con le sue esibizioni clamorose ed i suoi scandali, voleva mettersi in primo piano per venderne meglio immagine e prodotti letterari. Quindi, paradossalmente il culto della bellezza ed il vivere inimitabile, superomistico, risultavano essere finalizzati al loro contrario, a ciò che D’Annunzio ostentava di disprezzare, il denaro e le esigenze del mercato, contraddizione che non riuscì mai a superare. In concordanza con la nuova immagine mitica che voleva creare di sé, D’Annunzio non si accontentava più dell’eccezionalità di un vivere puramente estetico; nel 1897 venne eletto deputato della destra, ma passò per protesta contro il governo del generale Pelloux, nel gruppo di estrema sinistra del parlamento. Cercando uno strumento con cui agire più direttamente sul pubblico, D’Annunzio, a partire dal 1898, si rivolse al teatro, anche se il suo vero successo era destinato a restare legato alla letteratura. Nonostante la sua fama, D’Annunzio, a causa dei creditori inferociti, nel 1910 fu costretto a fuggire dall’Italia e a rifugiarsi in Francia. Nell’esilio si adattò al nuovo ambiente letterario, scrivendo persino opere teatrali in francese, senza interrompere comunque i legami con la patria. L’occasione tanto attesa per l’azione eroica gli fu offerta dalla prima guerra mondiale, del 1914. Allo scoppio del conflitto, D’Annunzio tornò in Italia ed iniziò un’intensa campagna interventista, che ebbe un peso notevole nello spingere l’Italia in guerra. Arruolatosi volontario, nonostante l’età, volò su Trieste e sull’Istria, guidò la squadriglia da bombardamento, fu insignito di una medaglia di bronzo al valore, ideò e realizzo la beffa di Buccari contro la marina austriaca, volò su Vienna gettando manifesti inneggianti all’Italia e condusse la rivolta irredentista contro la pace di Versailles, contro quello che i movimenti nazionalistici definivano la “vittoria mutilata”. Nel 1919 entrò a Fiume e la dichiarò città libera, ma fu un sogno velleitario che finì con il trattato di Rapallo del 1920 e con la presa della città da parte delle truppe regolari dell’esercito italiano. Scacciato con le armi nel 1920, sperò di proporsi come “duce” di una “rivoluzione” reazionaria, ma fu scalzato da un ben più abile politico, Benito Mussolini. Il fascismo poi lo esaltò come padre della patria ma lo guardò anche con sospetto, confinandolo in una sontuosa villa di Gardone, che D’Annunzio trasformò in un mausoleo eretto a se stesso ancora in vita, il vittoriale degli italiani. Furono gli anni dell’ascesa e del trionfo del fascismo, che lo nominò principe di Montenevoso e lo controllò come simulacro del genio italiano fatto di sregolatezza, amori, coraggio, eccessi, genialità, carisma e virilità. Il vittoriale D’Annunzio trascorse lunghi anni ossessionato dalla decadenza fisica, pubblicando alcune opere di memoria, e qui morì nel 1938. Avendo esordito precocissimo, D’Annunzio attraversò oltre un cinquantennio di cultura italiana influenzandola profondamente in numerose fasi con la sua produzione, esercitando un influsso non meno profondo anche in politica. Il percorso letterario di D’Annunzio è caratterizzato da un’istintiva prolificità, che lo porta a cimentarsi in tutti i generi e ad attraversare le correnti predominanti nel suo periodo. Si rivelò dunque, un’artista eclettico, ma la cui dispersività riceve una forma di coesione da tre aspetti inseparabili che caratterizzano la sua personalità: la sensibilità verso il gusto del pubblico, la sovrapposizione tra arte e vita e l’offrirsi di D’Annunzio al pubblico come esteta che vive nella bellezza. Il percorso letterario di D’Annunzio consiste nello sviluppo e nella reciproca combinazione di questi aspetti. L’esordio letterario avviene sotto il segno dei due scrittori, che in Italia negli anni ’80 suscitarono maggior eco: Carducci e Verga. Le prime due raccolte liriche, Primo vere (1879) e Canto novo (1882), si rifanno alle Odi barbare del Carducci (1877); la prima opera narrativa, Terra vergine, alla Vita dei campi verghiana (1880). D’Annunzio ricava da Carducci, oltre alla metrica barbara, il senso pagano delle cose sane e forti, della comunione con una natura solare e vitale, accostati a spunti diversi, quali momenti di stanchezza e visioni cupe e mortuarie, che fanno capire come il vitalismo sfrenato di D’Annunzio celi il fascino arcano della morte. Terra vergine è il corrispettivo in prosa del Canto novo. Il modello è il Verga rusticano di Vita dei campi dal quale D’Annunzio prende spunto per presentare figure e paesaggi dell’Abruzzo, sua terra. Il mondo di Terra vergine è un mondo sostanzialmente idillico, non problematico immerso in una rigogliosa e sensuale natura dalla quale esplodono passioni primordiali sottoforma di un erotismo vorace quasi violento. Il 1883 è l’anno di pubblicazione di un volume di poesie, Intermezzo di rime, mentre il 1884 è l’anno de Il libro delle vergini e il 1886 di San Pantalone. Per D’Annunzio, le opere poetiche sono il frutto della fase dell’estetismo: l’arte è il valore supremo ed a essa devono essere subordinati tutti gli altri valori. La vita si sottrae alle leggi del bene e del male e si sottopone solo alla legge del bello trasformandosi in opera d’arte. Sul piano letterario tutto ciò da origine ad un vero e proprio culto religioso dell’arte e della bellezza, ad una ricerca di eleganze estenuate, di artifici formali; la poesia nasce dalla letteratura, non dall’esperienza vissuta. E per questo che i versi dannunziani sono fitti di echi letterari che provengono dai poeti classici. D’Annunzio indossa la maschera dell’esteta nella vita come nella produzione letteraria, si inserisce negli ambienti intellettuali della metropoli, non si rassegna ad essere schiacciato dai processi oggettivi: vuole il successo e la fama, vuole condurre la vita di lusso aristocratico dei ceti privilegiati. Il personaggio dell’esteta, costruito nell’opera letteraria, è una forma di risarcimento immaginario ad una condizione reale di degradazione dell’artista; D’Annunzio non si accontenta di sognare rifugiandosi nella letteratura, vuole vivere quel personaggio anche nella realtà, proponendo anche un’immagine nuova di intellettuale che fa rivivere una condizione di privilegio dell’artista che era propria di epoche passate, e che sembrava definitivamente tramontata. Ben presto però D’Annunzio si rendo conto della debolezza di tale figura e della costruzione ideologica che essa presuppone: l’esteta non ha la forza di opporsi realmente alla borghesia in ascesa. Il suo isolamento sdegnoso può diventare solo sterilità e impotenza, il culto della bellezza si trasforma in menzogna. La costruzione dell’estetismo entra in crisi. Il suo primo romanzo, del 1889, Il Piacere, ne è la testimonianza più esplicita. Al centro del romanzo vi è la figura dell’esteta Andrea Sperelli, che non è che un “doppio” di D’Annunzio stesso, in cui l’autore obiettiva la sua crisi e la sua insoddisfazione. Andrea è un giovane aristocratico artista proveniente da una famiglia di artisti, ma ha una debolissima volontà, che diviene forza distruttiva e che lo priva di ogni energia morale e creativa. La crisi trova spago nel rapporto con la donna, la donna fatale che incarna l’erotismo lussurioso, ovvero Elena Muti, o la donna pura, che rappresenta l’occasione di un’elevazione spirituale, ovvero Maria Ferres. La figura della donna angelo è solo oggetto di gioco erotico più sottile e perverso, fungendo da sostituto di Elena, che Andrea continua a desiderare e che lo rifiuta. Andrea finisce per tradire la sua menzogna con Maria; in seguito, abbandonato dalla stessa, resta solo con il suo vuoto e la sua sconfitta. D’Annunzio, nei confronti di questo suo “doppio”, ostenta un atteggiamento piuttosto critico; in realtà il romanzo è percorso da una evidente ambiguità poiché Andrea non cessa di esercitare un sottile fascino sullo scrittore, e dunque Il Piacere, pur creando una sottile trama di allusioni simboliche, non rappresenta il definitivo distacco di D’Annunzio dalla figura dell’esteta. Ciò a cui mira D’Annunzio è creare un romanzo psicologico, in cui contino soprattutto i processi interiori del personaggio, complessi tortuosi, sul modello di Paul Bourget. Durante la crisi dell’estetismo D’Annunzio subisce il fascino del romanzo russo, avvicinandosi persino allo stile di Dostoevskij e al filosofo Nietzsche, dal quale coglie alcuni aspetti del pensiero, banalizzandoli e forzandoli entro un proprio sistema di concezioni; rifiuta il conformismo borghese, esalta un vitalismo gioioso, rifiuta l’etica della pietà altruistica, esalta la volontà di potenza per l’affermazione di sé, fa nascere il mito del superuomo. D’Annunzio si scaglia contro la realtà borghese del nuovo stato unitario, assumendo dunque un atteggiamento antiborghese e antidemocratico. Il motivo nietzschiano del superuomo è interpretato nel senso del diritto di pochi esseri eccezionali ad affermare se stessi, sprezzando le leggi comuni del bene e del male. D’Annunzio crea il nuovo personaggio del superuomo: aggressivo, energico, vitalistico, che non rinnega l’immagine di esteta, ma lo ingloba in sé. E’ essenziale il culto della bellezza vagheggiante per imporre attraverso esse il dominio di un’élite violento e raffinato insieme. Il mito del superuomo è sempre un tentativo di reagire alle tendenze della società capitalistica moderna ad emarginare e degradare l’intellettuale; va in direzione opposta a quello che proponeva il mito dell’esteta. Il manifesto politico del superuomo è senza dubbio Le Vergini delle rocce, del 1915, che segna una svolta ideologica radicale. D’Annunzio non vuole più proporre un personaggio debole tormentato e inerte, ma un eroe forte e sicuro. Il manifesto artistico del superuomo è considerato il Fuoco (1900): caratteristica fondamentale è il trionfo della morte, il suicidio, ma anche orazioni, meditazioni e tormenti. L’ideologia superomistica ha però un peso determinante nell’approdo di D’Annunzio al teatro (1896), con la composizione de La città morta e con concezioni ampiamente dibattute nel Fuoco. D’Annunzio si accosta al teatro per la suggestione della grande attrice Eleonora Duse, ma ambisce ad un teatro “di poesie” che trasfiguri e sublimi la realtà, riportando in vita l’antico spirito tragico che rappresenta il personaggio. Molte sue opere attingono gli argomenti della storia o del mito classico, come Francesca da Rimini o Fedra. Non mancano i drammi ambientati nel presente: La città morta, La Gloria, La Gioconda. In tutte queste tragedie, naturalmente, ricorre la tematica del superuomo, che però subisce molteplici sconfitte. La figlia di Jorio è un tipico esempio di tragedia pastorale del 1904, nel quale D’Annunzio colloca la vicenda in un Abruzzo primitivo, magico e superstizioso, mitico e fuori dal tempo, dove si compiace di insistere minuziosamente su riti, credenze, ecc. con linguaggio che riproduce le formule del linguaggio popolare. L’approdo all’ideologia superomistica coincide con la progettazione di vaste e ambiziose costruzioni letterarie. D’Annunzio infatti progetta cicli di romanzi, che però non porta a termine; nel campo della lirica vuole affidare la sua visione a sette libri di Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi. Nel 1903 erano terminati e pubblicati i primi tre : Maia, Elettra, Alcyone. Un quarto libro, Merope, viene messo insieme nel 1912, raccogliendo Le canzoni delle gesta d’oltremare, dedicate all’impresa coloniale in Libia. Postumo fu poi aggiunto un quinto libro, Asteròpe, che comprende tutte le poesie ispirate alla prima guerra mondiale. Gli ultimi due libri, non vennero mai scritti. Maia è un lungo poema unitario di oltre ottomila versi, con una particolarità formale: D’Annunzio non segue gli schemi della metrica tradizionale, ne quelli della metrica barbara, ma adotta il verso libero: si susseguono in ordine preciso i tipi di versi più vari, dal novenario al quinario. L’istinto del poeta è la produzione del Poema totale, la trasfigurazione mitica di un viaggio in Grecia realmente compiuto da D’Annunzio nel 1895. L’ “io” protagonista si presenta come un eroe ulisside, proteso alle più varie esperienze pronto a sprezzare qualsiasi divieto pur di raggiungere la meta. Il viaggio nell’Ellade è l’immersione in un passato mitico, dopo la quale il protagonista si reimmerge nella realtà moderna delle città terribili. Il passato modella su di sé il futuro da costruire; l’orrore della civiltà industriale si trasforma in nuova forza e bellezza e i mostri diventano luminose entità mitiche. Dopo la fuga nella bellezza del passato, D’Annunzio aveva affidato all’intellettuale superuomo il compito di intervenire attivamente nella realtà, per far rivivere la bellezza e l’eroismo del passato in un nuovo rinascimento, per cancellare un presente infame. Con Maia si ha una svolta: nel mondo moderno D’Annunzio scopre una segreta bellezza un nuovo sublime, pur scorgendo sempre l’attrazione morbosa per il disfacimento e la morte, per l’angoscia e la perplessità malata. Nel libro Elettra, le ambizioni filosofiche e profetiche lasciano il posto all’oratoria della propaganda politica diretta, anche se la struttura ideologica ricalca quello di Maia. Anche qui vi è un polo positivo, rappresentato da un passato e da un futuro di gloria e bellezza, e un polo negativo, cioè un presente da riscattare. Una parte cospicua del volume è costituita da una serie di sonetti sulle città del silenzio, le antiche città italiane. Equivalente dell’Ellade classica in Maia, sono qui Medioevo e Rinascimento. Costante è anche la celebrazione della romanità in chiave eroica, fusa con quella risorgimentale. Il terzo libro delle Laudi, Alcyone, è apparentemente molto lontano dai precedenti. Il tema principale e la fusione panica con la natura in un atteggiamento evasivo e contemplativo. Il libro è come il diario ideale di una vacanza estiva in Versilia; le liriche si ordinano in un disegno organico che segue la parabola delle stagioni. La stagione estiva è vista come la più propizia ad eccitare il godimento sensuale (PAN: nome di divinità agreste in cui si incarnava la potenza della natura). Musicalità e linguaggio analogico, forma melodiosa, sostanza fonica sono la basi di un gioco di immagini e sensazioni. Per questo Alcyone è la raccolta poetica più celebrata dalla critica: è una poesia pura, sgombra dal pensiero del superuomo, il vero poema paradisiaco, che si pone come capostipite della poesia italiana del ‘900, accanto alla poesia pascoliana.