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Libro

Italiano V [PROGRAMMA]

4. GIACOMO LEOPARDI

4.4. Le Operette morali


a Le Operette morali sono una raccolta di ventiquattro componimenti in prosa, divise tra dialoghi e novelle dallo stile medio e ironico, scritte tra il 1824 ed il 1832 dal poeta e letterato Giacomo Leopardi. Sono state pubblicate definitivamente a Napoli nel 1835, dopo due edizioni intermedie nel 1827 e nel 1834. Le Operette sono l'approdo letterario di quasi tutto lo Zibaldone. I temi sono quelli cari al poeta: il rapporto dell'uomo con la storia, con i suoi simili ed in particolare con la Natura, di cui Leopardi matura una personale visione filosofica; il confronto tra i valori del passato e la situazione statica e degenerata del presente; la potenza delle illusioni, la gloria e la noia. Sono tematiche riproposte alla luce del cambiamento radicale avvenuto nel cuore dello scrittore: la ragione non è più un ostacolo alla felicità, ma l'unico strumento umano per sfuggire alla disperazione. A differenza dei Canti, sono state concepite interamente nell'anno 1824. Le differenti edizioni testimoniano integrazioni di dialoghi successivi e aggiustamenti circa il messaggio finale. Le Operette furono spesso confuse con un progetto parallelo del padre Monaldo, che ebbe molto successo, e spesso Giacomo era citato come l'autore, procurando al poeta forte imbarazzo e frustrazione. Gli argomenti delle Operette, in particolar modo quelli sviluppati nel Dialogo della Moda e della Morte e Dialogo di Tristano e di un amico, saranno ribaditi con decisione, come un corollario della filosofia leopardiana, da Carlo Michelstaedter ne La Persuasione e la Rettorica.

Leopardi accarezzava già dal 1820 l'idea di scrivere delle Prosette satiriche, ma solo nel 1824 il progetto matura e coinvolge più argomenti ed esperienze. Sono gli anni del trasferimento a Roma, nel tentativo di lasciare Recanati, la tomba de' vivi, per trovare la felicità (illusione presto svanita); della crisi poetica (l'inaridimento della vena lirica della prima gioventù) e filosofica (il passaggio dal materialismo storico-progressivo a quello cosmico). In un passo dei Disegni letterari ricostruito sulle carte autografe recanatesi, Leopardi rivela di voler scrivere dei: 


«Dialoghi satirici alla maniera di Luciano, ma tolti i personaggi e il ridicolo dai costumi presenti e moderni, e non tanto tra i morti [...], quanto tra personaggi che si fingano vivi, ed anche volendo, fra animali [...]; insomma piccole commedie, o Scene di Commedie [...]: le quali potrebbero servirmi per provar di dare all'Italia un saggio del suo vero linguaggio comico che tuttavia bisogna assolutamente creare [...]. E questi dialoghi supplirebbero in certo modo a tutto quello che manca nella Comica Italiana, giacché ella non è povera d'intreccio d'invenzione di condotta ec., e in tutte quelle parti ella sta bene; ma le manca affatto il particolare cioè lo stile e le bellezze parziali della satira fina e del sale e del ridicolo attico e veramente e plautino e lucianesco [...].» 


Al Besomi spetta il merito di aver ricostruito, il più fedelmente possibile, la data di composizione di questi primi abbozzi. Non estranea l'influenza della delusione dei moti rivoluzionari del '20-'21 a Napoli che, successivamente, farà sparire la coloritura politica di queste prime prove. Il Blasucci e il Secchieri considerano i tempi delle prosette satiriche, momenti distinti dalle Operette vere e proprie. Sebbene di data incertissima si possono datare al 1820-'21, i seguenti esperimenti di prosette. Nei dialoghi sono presenti alcune caratteristiche tipiche dello stile lucianeo (conversazione agli inferi, forme di comicità bassa, ecc.) che diventeranno proprie della produzione maggiore.  Nel 1888 al passaggio delle carte da Antonio Ranieri alla Biblioteca Nazionale di Napoli emerse un autografo con un indice per le venti operette fino ad allora composte, diverso dalla prima e da ogni edizione a stampa nota. Questo autografo è una bella copia abilmente predisposta con ampi margini per contenere note e appunti soprattutto di carattere grammaticale e stilistico. In base ai diversi colori degli inchiostri usati è stato possibile distinguere tre fasi correttorie anteriori al maggio del 1826. A differenza dei Canti, le Operette morali non hanno subito grandi cambiamenti. Nella prima prova mai data alle stampe, è interessante la chiusura affidata al Cantico del Gallo Silvestre, che richiama la novella iniziale, Storia del genere umano: Leopardi affida ad un essere soprannaturale un messaggio escatologico che integra il tema della morte, facendo prevalere nel libro l'aspetto più filosofico del suo pensiero. Questa immagine svanirà nelle successive edizioni, per poi essere recuperata nel dittico che il Cantico formerà con il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, introdotto da una piccola nota in calce nell'edizione del 1835.

Edizione del '27

Conosciuta come la prima edizione ufficiale delle Operette morali, è stata pubblicata a Milano da Antonio Fortunato Stella, intelligente editore che seppe mediare con i rigidi censori dell'epoca. Lo Stella è da annoverare, insieme con Giordani e il Montani, tra quei personaggi che seppero comprendere lo spirito dell'opera, anche se l'Italia non era abituata a quel genere di letture. Tra il 1825 e il 1827 Leopardi scrive tre nuove prose ma qui non ve n'è traccia. Dalla fitta corrispondenza del periodo, testimone delle correzioni, revisioni e commenti dell'autore, emerge l'unitarietà del registro retorico delle Operette che giustifica l'assenza di un'introduzione che spieghi il suo disegno programmatico. Nello spostamento del Timandro a chiusura del libro, la critica ha letto una sorta di apologia dell'opera contro i filosofi moderni: evidentemente la composizione del Frammento apocrifo, che con il Cantico andrà a formare il pilastro del concetto leopardiano del tutto è male, ha condizionato il cambiamento del finale. Lo spostamento del Dialogo della Natura e di un Islandese, inserito tra il Tasso e il Parini, è dettato da variatio letteraria: l'autore evita la successione di due operette che hanno per protagonisti due storici poeti e letterati.

Edizione del '34

La seconda edizione delle Operette fu pubblicata sei anni dopo, nel 1834 (inviata tra giugno e luglio 1833) perché la prima era letteralmente introvabile. In quel periodo Leopardi soffriva di un fastidioso male agli occhi e a causa del problema alla vista, fu Antonio Ranieri ad occuparsi materialmente della stampa, presso l'editore Guielmo Piatti di Firenze, che nel 1831 aveva già pubblicato i Canti. Sono pubblicate per la prima volta due nuove operette: nel 1832, il poeta aveva composto: Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere e Dialogo di Tristano e di un amico, quest'ultimo, posto a conclusione, è un testo polemico legato alla rottura col gruppo fiorentino dell'Antologia. La nuova edizione è una risposta alle opinioni ostili mosse nei suoi confronti e un'occasione per riprendere in modo più radicale le riflessioni in essa contenute. Delle operette del '25-'27 ancora nessun segno, tuttavia il contenuto del Frammento si fa sentire in una nota posta al Cantico in cui l'autore dichiara: Questa è conclusione poetica non filosofica; il passo successivo sarà quello di approfondire questa conclusione in un testo più ampio e articolato.

Il tema principale di questo nucleo è la penitenza della virtù, ovvero la scelta di una scrittura morale che non può più insegnare quegli errori magnanimi che abbelliscono la nostra vita[...]. Questi errori sono la virtù e la gloria. La nuova scrittura rinuncia alla poesia (lirica) e alla persuasione dell'entusiasmo; e consiste, molto praticamente, nell'astensione dall'impegno politico e filantropico. Resta solo l'ironia e il gioco fine a sé stesso: a confronto sono presi Senofonte e Machiavelli, la Ciropedia e il Principe. I dialoghi e le novelle sono costantemente intrecciati e variati: è difficile se non impossibile tracciare un quadro d'insieme. Mutano continuamente situazioni, personaggi, luoghi e tempi; «emerge un mondo bizzarro di gusto popolare e fanciullesco, pieno di grazia e di geniale vanità». Ben rappresentato appare il piacere della variazione, della discontinuità: il lettore è provocato e stimolato; la conclusione del libro viene lasciata alla sua responsabilità. Questo aspetto troverà la sua più compiuta attuazione nel Dialogo di Plotino e di Porfirio.

Edizione del '35

La terza edizione delle Operette presso l'editore Saverio Starita di Napoli, corretta e accresciuta, fa parte di un progetto per la stampa completa delle opere poetiche e in prosa di Giacomo Leopardi in tre volumi: il primo per i Canti e il secondo, diviso in due tomi, per le Operette. Sfortunatamente la pubblicazione fu interrotta dalla censura e solo le prime tredici videro la luce. Leopardi aveva finalmente risolto di pubblicare Il Copernico ovvero della gloria e il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco.  «L'edizione delle mie opere è sospesa, e più probabilmente abolita, dal secondo volume in qua, il quale ancora non si è potuto vedere a Napoli pubblicamente, non avendo ottenuto il publicetur. La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un nome e sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto.» (Giacomo Leopardi, lettera a Luigi De Sinner del 22 dicembre, 1836.) Nonostante la soppressione molte copie del primo volume furono vendute con uno stratagemma: il frontespizio originale fu sostituito con il seguente: Prose di Giacomo Leopardi, Edizione corretta, accresciuta e sola approvata dall'autore, Napoli, Italia 1835.

Edizione del '45

Nel 1845 uscì la prima edizione postuma presso l'editore di Firenze, Le Monnier curata gelosamente da Antonio Ranieri che, sebbene piena di errori, fu costruita sull'autografo dell'autore e su i suoi appunti preparatori per l'edizione Starita e per quella parigina. Ranieri aggiunse alcune note al testo ma non sempre in modo puntuale. Il Frammento trova posto dopo il Cantico. Il Copernico e il Porfirio sono interposti a Timandro e alle operette composte per ultime. La palinodia del Tristano si conferma a conclusione dell'opera. Escluso il Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio, «per volontà dell'autore», ma nessun documento ne spiega i motivi. Ad avvalorare il lavoro, che testimonia sia stata attuata la volontà di Leopardi e non quella di Ranieri, un esemplare del primo volume della Starita e un'edizione della Piatti corretta dall'autore, più alcuni autografi e bozze. Nella stampa era presente un'avvertenza, imposta a varie operette dal censore fiorentino, padre Amerigo Barsi, per proteggere il lettore, in nome del sistema cattolico, dagli errori del poeta.

Edizioni postume

Le basi per la prima edizione critica furono gettate dal Mestica che concentrò la maggior parte del suo lavoro sulla carte napoletane. Nonostante la morte prematura del curatore, avvenuta prima del compimento dell'opera, la casa editrice Le Monnier, approntò una nuova edizione che si basava su i suoi studi nel 1906. Ad essa seguì l'edizione di Giovanni Gentile, per la Zanichelli, a Bologna nel 1918 che si rifaceva all'ultima edizione curata da Leopardi, più l'autografo napoletano. A questo punto l'edizione critica ufficiale fu portata a termine da Francesco Moroncini, e ad esse si rifanno tutte le successive edizioni. Il Moroncini, come il Ranieri ma perfezionandolo, si basò su una copia del primo volume della Starita corretta da Leopardi stesso e sulla Piatti con correzioni a mano del Ranieri dettate dal poeta. Per Copernico utilizzò una bozza corretta per il terzo volume delle Opere edizione Starita che non uscì mai, mentre per Porfirio l'edizione del '45 più riscontri con autografi.

Le Operette morali si presentano come una raccolta di testi apparentemente slegati, senza una cornice o espliciti collegamenti tematici. Formalmente mostrano l'impiego di un elevato registro espressivo; le tecniche paratestuali coinvolgono testi fittizi, manoscritti ritrovati o volgarizzati, apocrifi. Il lettore è spinto a seguire il ragionamento da angolazioni sempre diverse. Questa sistematica variazione fornisce ai testi un'inconfondibile originalità filosofica, morale e poetica. Il pensiero dell'autore non appare circoscritto ad un determinato testo, ma sconfina volutamente in altre parti del libro senza soluzione di continuità. La curiosità del lettore su tematiche sensibili troverà soddisfazione proprio procedendo con la lettura. Si può considerare un'opera aperta proprio per quel trionfo dell'immaginazione e dell'estro che governa l'invenzione in conflitto con l'attesa di una sistematicità che il titolo promette. L'unico esempio disponibile al tempo erano delle prosette alla maniera di Luciano di Vincenzo Monti. Il poeta romagnolo aveva rispolverato il genere, evitando l'abusato dialogo dei morti, e aveva inserito alcuni componimenti nei quattro volumi della Proposta di alcune correzioni e aggiunte al vocabolario della Crusca, editi tra il 1817 e il 1824. Leopardi analizzò con cura nel marzo del 1821 gli esemplari montiani prima di cominciare a lavorare al suo progetto già concepito da tempo. Nonostante l'illustre precedente, le operette resteranno un'opera originale e senza seguito nella storia della letteratura italiana. Operette è un diminutivo di umiltà: si tratta di componimenti brevi, considerati piccoli in mole e in valore dall'autore. La loro minuzia contribuisce a renderli, però, di un'efficacia filosofica e poetica lucida, programmatica e chiara. Il termine morali segna il contenuto filosofico: i mores, i costumi, indicano la volontà di individuare nuovi modelli di comportamento, mettendo a confronto l'antichità e la modernità: implicito il richiamo agli Opuscula Moralia di Plutarco. L'attenuazione canonica del genere morale antico e umanistico, riporta a Isocrate, di cui Leopardi volgarizza alcune Operette morali e Plutarco, fino a Machiavelli e al moralismo illuministico. Le Operette prendono il titolo anche dal messaggio pratico, non solo teoretico che danno: proponendo un umile rimedio agli effetti funesti della filosofia moderna o della verità, recuperano l'inesperienza, le passioni e l'immaginazione dell'antichità (fondate sul falso), unico rimedio per migliorare la qualità della vita umana, e, in alternativa, suggeriscono delle tattiche di narcotizzazione per alleviare il dolore. Un impegno simile sarà profuso in un altro scritto del 1826, il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, in cui sono evidenti le finalità politiche, morali e storiche. Alla fine del '24 il pensiero di Leopardi è orientato verso il materialismo, come attestano le letture del barone d'Holbach annotate nello Zibaldone. L'aspetto pessimistico, usato da una parte della critica per riferirsi alla sua filosofia è da riconsiderare perché non accettata dall'autore: 

«Tutto è male. [...] ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; il fine dell'universo è il male; [...] Non v'è altro bene che il non essere: non v'ha altro di buono che quel che non è; [...] tutte le cose sono cattive. [...] L'esistenza per sua natura ed essenza propria e generale, è un'imperfezione, un'irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, [...] perché tutti i mondi che esistono, [...] non essendo però certamente infiniti, né di numero né di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l'universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, [...] del non esistente, del nulla. Questo sistema, benché urti le nostre idee, [...] sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibnitz, del Pope ecc. che tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l'universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all'ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?» 


Il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco è il culmine filosofico del libro. Insieme con l'Islandese e il Metafisico formano il gruppo di operette che definisce più compiutamente il materialismo leopardiano. Il fine della natura non è il bene ma la conservazione in vita degli esseri (Natura e Islandese). La vita è infelice: meglio un'esistenza breve ma intensa e ricca di forti illusioni, che una lunga, piena di emozioni dilatate e narcotizzanti. A chi piace e a chi giova questa infelicissima vita dell'universo? Nessun filosofo sa rispondere alla domanda. È una sconfitta del pensiero filosofico e in generale la rappresentazione dell'inadeguatezza della filosofia a spiegare la condizione del genere umano nell'universo. Il Cantico del gallo silvestre, con il suo andamento lirico, snocciola monolitiche sentenze mettendo il lettore nell'attesa di una soluzione filosofica, Così questo arcano mirabile e spaventoso dell'esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi, fornita nel Frammento: 


«I diversi modi di essere della materia [...] sono caduchi e passeggeri; ma nessun segno di caducità né di mortalità si scuopre nella materia universalmente, e però niun segno che ella sia cominciata, né che ad essere le bisognasse o pur le bisogni alcuna causa o forza fuori di sé.»(Giacomo Leopardi, Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco). 


Malgrado le apparenze, resta un non finale e sarà il punto modificato più spesso dall'autore. All'interno delle operette si rincorrono e si sovrastano diversi temi, particolarmente cari al poeta. Un argomento spesso presente è la perfezione naturale. Tale condizione implica uno stato di felicità che per natura agli uomini è impossibile conseguire (Scommessa di Prometeo, Dialogo di un Fisico e un Metafisico), mentre è concessa ad altre specie, come gli uccelli (Elogio degli uccelli), simbolo del movimento continuo e armonico, rapido ed elegante. L'assenza della felicità nel mondo è la prova della sua imperfezione e la miserabile condizione umana verificata da Prometeo una verità inoppugnabile, simbolicamente costata una scommessa. Impossibilitato a raggiungere una perfezione naturale, l'uomo può conseguire uno stato di eccellenza attraverso l'intelletto e la ragione: il genio. È la tematica del Parini chiamato a rinnegare la gloria a causa della sproporzione esistente tra il progresso del sapere e la condizione infelice del genio. Situazione toccata anche nel Dialogo della Natura e di un'Anima dove la gloria è associata ad una condizione umana miserevole in cui grandezza e infelicità sono due aspetti inseparabili e i grandi ingegni mal si relazionano col resto del mondo. L'Anima pertanto chiederà d'essere alluogata nell'essere umano più imperfetto e stupido. Altro tema che ricorre attraverso più operette è il suicidio indicata nella Storia del genere umano come morte preposta o preponibile alla vita. È un desiderio proprio dell'essere umano, estraneo a tutti gli altri esseri viventi. Nel Fisico e Metafisico, Leopardi spiega come non la vita ma la felicità è amata dall'uomo.L'analisi tra antichi e moderni è esplorata nel Timandro, nel Tristano, nel Dialogo d'Ercole e Atlante, e Moda e Morte. La vitalità antica si oppone all'inerzia moderna: Ercole e Atlante giocano a palla con la terra, leggera e senza vita; la Moda ha fatto sparire gli esercizi e le fatiche che fanno bene al corpo e spento nell'uomo il desiderio di gloria e d'immortalità, proprio degli antichi; nel Parini si svolge l'argomentazione della superiorità dell'azione sul pensare e lo scrivere. La teoria del piacere derivante dall'idea di vastità e indefinito è l'argomento più famoso e conosciuto dell'autore, ampiamente esplorato nelle altre opere maggiori, Zibaldone e Canti. Ad essa si ricollegano diversi temi minori: la noia, che deriva dall'assuefazione e da una vita priva di grandi azioni (Tasso, Porfirio); il rischio e la distrazione, che allontanano l'uomo dal tedio e per pochi attimi catturano l'essenza della vita, tanto più la si mette in gioco (Colombo, Elogio degli uccelli, Storia del genere umano); i grandi sentimenti, gli unici in grado di mover il core a grandi azioni; e infine lo stupore, vissuto nel sogno, attraverso la meraviglia degli antichi, nei fanciulli, nei non civilizzati e nei solitari. Per Leopardi la vita è dolore, mentre la morte è cessazione del dolore. È un tema molto ricorrente, quasi il pilastro del suo pensiero. Il poeta propone vari modi per combattere il dolore. Lo stesso sonno (Dialogo Malambruno e Farfarello) aiuta quando rende la realtà vaga e incerta, mai ben definita (secondo la teoria del piacere), oppure attraverso l'assunzione di sostanze narcotiche come gli alcolici (Tasso). La morte non è molto dissimile dal diletto che è cagionato agli uomini dal languore del sonno, nel tempo che si vengono addormentando (Ruysch).

«Pare che l'essere delle cose abbia per suo proprio e unico obbietto il morire [...] le creature animate [...] in tutta la loro vita, ingegnandosi adoperandosi e penando sempre, non patiscono veramente per altro, e non si affaticano, se non per giungere a questo solo intento della natura, che è la morte» (Giacomo Leopardi, Cantico del gallo silvestre)

La noia può essere combattuta con il sonno (effetto narcotizzante: l'oppio) ma è il dolore, il rimedio (Tasso). È il sentimento più potente di tutti, perché l'uomo mentre patisce, non si annoia per niuna maniera. Per Leopardi è impossibile la felicità, mentre il patimento è necessario alla vita.


Leopardi rifiuta le due soluzioni moderne: puristica da un lato, francesizzante dall'altro. Scartato anche il modello ipotattico, latineggiante, caro all'amico Giordani. La scelta è per il recupero nell'italiano, a tutti i suoi livelli (popolare incluso), di tutto quello che c'era di analogo al greco attico. La ricchissima varietà della lingua italiana, avrebbe permesso di recuperare un linguaggio antico ma funzionale, col quale l'autore avrebbe ottenuto principalmente una semplificazione sintattica: meno ricorso all'ipotassi, alle figure retoriche e all'inversione dell'ordine delle parole. Importanti sono i procedimenti che individuano l'intensificazione emozionale: moltiplicazione verbale e accumulo di proposizioni; uso di elativi e di voci perplesse e indefinite. Molte Operette hanno la struttura del dialogo, sulla base dello stile della trattazione filosofica dell'antica Grecia o del settecento illuminista; le narrative mostrano l'impronta di Cicerone, Machiavelli, Cervantes, Foscolo, Goethe, Sterne e l'Alfieri. Lo strumento del paradosso è parte necessaria del pensiero filosofico e insieme con l'ironia non può essere scisso dal discorso leopardiano. Nelle Operette predomina un intento ludico studiato per far sorridere il lettore. La presenza di una volontà di distruggere i costumi del tempo, implica un continuo ricorso all'azione ironica, strumento necessario per costruire una fitta trama di relazioni che hanno come scopo ultimo il rifiuto dell'oggetto deriso e, allo stesso tempo, la proposta di un differente modello di vita: ciò permette all'autore di giocare e scherzare con i comportamenti umani contemporanei e allo stesso tempo mantenere la finalità morale dell'opera. Il riso ha poi una funzione medicamentosa, che allevia i dolori dell'essere umano causati dalla nuda verità. Secondo Leopardi è uno dei pochi mezzi con cui l'uomo può accrescere la propria vitalità (Elogio degli uccelli). Il continuo ricorso di Leopardi ad esseri immaginari, (gnomi, folletti, mummie), storici (Torquato Tasso, Cristoforo Colombo, Giuseppe Parini,), mitologici (Ercole, Atlante, Giove), filosofici (Plotino, Porfirio, Amelio), letterari (Malambruno, Farfarello), comuni (passeggeri, islandesi, venditori ambulanti), inanimati (la Terra, la Luna), simbolici (la Natura, l'Anima, la Morte, la Moda) sono una satira dell'antropocentrismo, la derisione del progresso moderno e di una società in cui prevale un odio distruttore. Tutti i protagonisti possiedono una forte rappresentatività simbolica, ottenuta attraverso la tecnica dello straniamento e della prosopopea che rende animati elementi che non lo sono. Leopardi non ha mai voluto comparire nel testo. Nega la sua realtà di personaggio ideologico.


«Avrei voluto fare una prefazione alle Operette morali, ma mi è paruto che quel tuono ironico che regna in esse, e tutto lo spirito delle medesime escluda assolutamente un preambolo; e forse Ella, pensandovi, converrà con me che se mai opere dovette essere senza prefazione, questa lo debba in particolar modo.» (Giacomo Leopardi, lettera ad Antonio Fortunato Stella del 10 giugno, 1826.)


Nessun protagonista è Giacomo, tutti sono complici, portavoce del suo pensiero e degli affetti più riposti: il ricorso alla citazione continua, all'argomentazione discorsiva da un lato, le preoccupazioni didascaliche, il paradosso e l'ironia dall'altro, provocano nel lettore un senso di straniamento e sorpresa; una condizione, fortemente cercata dall'autore, che la personificazione, a qualsiasi livello, finirebbe per annullare.