Il libro dei Canti di Leopardi conta quarantuno testi composti tra il 1816 e il 1837. Il grosso di questa produzione si concentra nel quinquennio iniziale (1818-1822), e negli ultimi otto anni (1828-1836). Nel quinquennio centrale (1823-1827) abbiamo due soli testi rilevanti (più due frammenti). La prima edizione dei Canti, contenente ventitré testi, uscì a Firenze dall’editore Piatti nel 1831. Una seconda edizione fu stampata a Napoli dall’editore Starita nel 1835, primo volume di una progettata edizione di tutte le opere leopardiane (poi bloccata dalla censura dopo il secondo volume): i testi erano ora saliti a trentanove, avendovi l’autore incluso i nuovi canti composti a partire dal 1831 nonché alcuni frammenti e traduzioni precedenti. Non vi furono altre edizioni, vivo Leopardi. La terza (e definitiva) uscì postuma nel 1845 a Firenze presso l’editore Le Monnier a cura di Antonio Ranieri, fedele a una copia della seconda edizione corretta dall’autore e con l’aggiunta, prima del trentacinquesimo componimento della stampa napoletana, di due testi composti da Leopardi nel 1836 (La ginestra e Il tramonto della luna). È questa l’edizione che leggiamo anche oggi (cfr. per l’indice del volume e per un quadro riassuntivo la tabella La struttura dei Canti e i tempi di composizione). Prima di pensare al libro dei Canti, Leopardi pubblicò numerose stampe parziali dei testi via via composti, fra cui Canzoni nel 1824, contenente dieci testi, e Versi del 1826, contenente nove dei testi poi confluiti nei Canti e altri non più ripubblicati.
Le ragioni che hanno determinato la specifica distribuzione strutturale dei testi all’interno dei Canti non sono univoche o evidenti, benché alcuni criteri risultino facilmente desumibili. Leopardi, per esempio, non segue rigorosamente l’ordine cronologico di composizione; e tuttavia rispetta tale ordine cronologico in molti casi, e soprattutto, salvo eccezioni, dispone i testi secondo blocchi anche cronologicamente omogenei, procedendo dai più antichi ai più recenti. Non vi è neppure una suddivisione rigida per generi, benché anche questo criterio agisca spesso in modo coerente (soprattutto per il gruppo delle canzoni civili del 1818-22 e per gli idilli del 1819-21).
Si deve infine riconoscere, in sintesi, che la struttura dei Canti è il risultato di varie esigenze e intenzioni, non sempre coerentemente soddisfacibili. Il criterio cronologico (quello che più risponde all’esigenza di scrivere quella «storia di un’anima», cioè quell’autobiografia, cui Leopardi ha sempre aspirato) si intreccia con quello della suddivisione per generi e per temi. In ogni caso è legittimo valorizzare l’autonomia e la compiutezza di ciascun testo dei Canti; ma senza dimenticare del tutto la collocazione all’interno della struttura complessiva nella quale l’autore ha voluto collocare i vari componimenti. Anche il titolo dei Canti - prima d’allora mai adottato nella tradizione letteraria italiana per una raccolta di liriche - persegue l’unificazione dei due filoni fondamentali del libro, quello delle canzoni e quello dei testi idillici. Il suo riferimento alla intonazione musicale dei testi sottolinea la centralità della dimensione lirico-soggettiva, della manifestazione diretta dell’io e della sua interiorità. Gli anni che vanno dal 1818 al 1822 sono caratterizzati da una evoluzione rapidissima delle posizioni leopardiane, sia per quanto attiene al pensiero, sia per la poetica, sia per i concreti tentativi di scrittura. Il distacco dalla formazione cattolica e dagli atteggiamenti reazionari ereditati dal padre, il bisogno di un nuovo orizzonte di valori, l’adesione a una prospettiva materialistica e pessimistica determinano un bisogno di modernità, cioè un’inquieta ricerca di forme di scrittura in grado di esprimere bisogni, intenzioni, riflessioni del tutto nuovi.
Nel campo della scrittura poetica, questa condizione produce tre direzioni fondamentali di ricerca. Una prima, destinata a essere subito interrotta e rifiutata, è di tipo esplicitamente romantico, per i temi quotidiani e scabrosi, pur in presenza di un linguaggio classicistico; i titoli delle due canzoni scritte in questa prospettiva (nei primi mesi del 1819) valgono anche a riassumerne il contenuto: Per una donna inferma di malattia lunga e mortale e Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato [il feto di cui è gravida] dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo. Mentre questi tentativi legati a episodi di “cronaca nera” non entreranno mai a far parte dei Canti, le altre due direzioni di ricerca producono i due nuclei fondamentali della prima poesia leopardiana. Si tratta di due direzioni assai diverse tra loro, in gran parte tentate contemporaneamente da Leopardi, ma destinate a integrarsi solo molti anni dopo, a partire dalla prima edizione dei Canti (1831).
Da una parte ci sono le canzoni civili, scritte tra il 1818 e il 1822; dall’altra gli idilli, composti tra il 1819 e il 1821. Nelle canzoni, Leopardi tenta una poesia impegnata, dapprincipio strettamente patriottica, quindi civile in senso più ampio, ricorrendo alla struttura tradizionale della canzone petrarchesca e impiegando un linguaggio fortemente letterario. Negli idilli, sperimenta invece una poesia più modernamente lirica, di tipo “sentimentale”, con una selezione linguistica più intima e concentrata, impiegando forme metriche aperte e personali. Tanto nelle canzoni quanto negli idilli si affaccia un bisogno di espressione di tipo esistenziale, nonché la tendenza alla riflessione filosofica e alla concettualizzazione sistematica. Ciò, per un verso, imprime un significato lirico anche alle oggettive canzoni civili, e, per un altro, conferisce un rigore di elaborazione teorica agli idilli. L’impegno patriottico e civile delle canzoni si conclude, dopo la delusione dei moti rivoluzionari del 1821, con la canzone Bruto minore, nella quale l’eroe romano, sconfitto, dichiara inutile l’impegno in nome della virtù e si uccide. Un significato meno direttamente “politico” ha l’altra canzone del suicidio, l’Ultimo canto di Saffo. Accanto alle due canzoni si collocano altri testi, anch’essi conclusivi di questa stagione, come Alla Primavera, o delle favole antiche e Alla sua donna, con la quale Leopardi si licenzia per cinque anni dalla poesia. Questa prima fase della poesia leopardiana è raccolta - oltre che in alcuni frammenti stampati in fondo al libro - nei primi diciotto testi dei Canti (fra i quali però sono compresi anche due componimenti degli anni Trenta: Il passero solitario e Consalvo). L’ordine di disposizione fa precedere le canzoni, seguite dagli idilli. Una funzione di conclusione provvisoria e di cerniera è assegnata alla canzone Alla sua donna (1823), in diciottesima posizione (cfr. La struttura dei Canti e i tempi di composizione).
I Canti si aprono con un consistente nucleo di canzoni, la forma poetica cui Leopardi riteneva probabilmente di aver affidato i risultati più convincenti della propria ricerca. Si tratta di nove delle dieci canzoni pubblicate a Bologna nel 1824 (la decima, Alla sua donna, viene fatta slittare al di là degli idilli, a chiudere la prima fase della poesia leopardiana): due composte nel 1818, una nel 1820, sei tra il dicembre del 1821 e il novembre del 1822. È coerente con le posizioni sostenute nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica la scelta leopardiana di misurarsi, a partire dallo stesso 1818 del Discorso, con un tipo di poesia nobilmente impegnata, ispirata a modelli classici e suscitatrice di passioni e di virtù elevate. Il tema prescelto è innanzitutto quello patriottico, di cocente attualità in quegli anni, tra la riorganizzazione restaurativa del Congresso di Vienna e i primi moti insurrezionali. Alla scelta del tema e dell’impianto classicistico coopera d’altra parte anche l’accresciuta consapevolezza storica del giovane poeta, entrato fra l’altro in contatto con Giordani e con il suo classicismo orientato in senso civile e patriottico. Tra il settembre e l’ottobre del 1818, Leopardi scrive dunque All’Italia e Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze. Entrambe le canzoni di esordio, occupanti la prima e la seconda posizione nel libro dei Canti, hanno al centro il tema della decadenza italiana e il confronto tra la grandezza antica e la vile schiavitù presente. In entrambe si delinea, accanto al tema civile, una tematica esistenziale: il poeta fa corrispondere alla crisi storica dell’Italia una propria crisi personale, proponendosi gesti di eroico riscatto individuale. Il modello delle canzoni civili di Petrarca è arricchito e complicato a partire dalla metrica, che risente della tradizione rinascimentale e barocca (per esempio Tasso). Pubblicate a Roma, con dedica a Vincenzo Monti, le due canzoni del 1818, nel gennaio 1820 Leopardi ne scrive una terza, ancora centrata sul tema patriottico ma organicamente investita delle problematiche filosofico-esistenziali maturate sullo Zibaldone nel corso del decisivo 1819: Ad Angelo Mai, quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica. In tutt’e tre queste canzoni si riscontra la ricerca di un linguaggio capace di unire classicità e modernità, cioè sostenutezza sintattico-argomentativa e turbamento esistenziale, obiettività e soggettività. Prende avvio in tal modo il tentativo leopardiano di fondare una poesia originalmente fedele ai grandi modelli classici e al tempo stesso rinnovata in senso sentimentale: una sorta di classicismo romantico. Il tema civile è affrontato anche nelle due canzoni che seguono — Nelle nozze della sorella Paolina e A un vincitore nel pallone —, composte tra l’ottobre e il novembre del 1822. È confermata in entrambe la diagnosi cupa della degradazione presente già pronunciata nelle tre canzoni precedenti; e tuttavia si delineano possibili opportunità di riscatto. La posizione seguente, nella struttura del libro, è occupata da Bruto minore: sconsolata conclusione eroica, in negativo, delle speranze civili, nonché radicale rinuncia alla virtù come alternativa storica ed esistenziale. Seguono quindi due canzoni composte nel 1822, entrambe dedicate, da diversa angolatura, al tema della natura e del rapporto tra natura e civiltà: Alla Primavera, o delle favole antiche e Inno ai Patriarchi, o de’ principii del genere umano. La rottura dell’intesa uomo-natura giunge alle conseguenze estreme nella seconda canzone del suicidio, l’Ultimo canto di Saffo, che per questa ragione segue l’Inno ai Patriarchi benché composta prima. Una funzione di cerniera tra le canzoni e gli idilli spetta dunque a Il primo amore, una composizione in terza rima del 1817-18, recuperata da un testo più vasto, e a Il passero solitario, scritto quasi certamente molti anni più tardi, ma posto qui a partire dall’edizione napoletana del 1835, quale anticipazione del tema della giovinezza sprecata.
Legate dal tema del suicidio sono due canzoni composte, rispettivamente, nel dicembre 1821 e nel maggio 1822: Bruto minore e Ultimo canto di Saffo. La prima presenta un suicidio politico, e chiude il tema civilmente impegnato delle prime cinque canzoni; la seconda presenta un suicidio esistenziale, e conclude la riflessione sulla rottura moderna del rapporto armonioso con la natura.
Parallelamente alla stesura delle canzoni civili nascono, tra il 1819 e il 1821, gli «idilli»: L’infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, La vita solitaria, che nell’edizione definitiva dei Canti occupano i numeri 12-16. Nella struttura dei Canti tra le canzoni, che giungono al numero 9, e gli idilli vi sono due testi (Il primo amore e Il passero solitario), ai quali è assegnata la funzione di fungere da cerniera tra i due diversi filoni di ricerca. Il primo amore (in terzine dantesche) risale al 1817 e si sofferma sull’esperienza d’amore per la cugina Gertrude Cassi Lazzari. Il passero solitario è invece da assegnare agli anni più tardi del poeta (quasi senz’altro dopo il 1830); fu posto qui per ragioni prevalentemente tematiche, approfittando del fatto che esso è scritto dal punto di vista della giovinezza e che ben annuncia il tema della solitudine e della giovinezza sprecata che attraversa, senza lo stesso taglio tragico, altri idilli (come La vita solitaria). Gli idilli presentano dunque, a differenza delle canzoni, un punto di vista lirico-soggettivo. Ciò non esclude tuttavia un orientamento riflessivo, e perfino filosofico e argomentativo: un’«esperienza che investe la sfera conoscitiva non meno che quella emotiva» (Blasucci). Vi è insomma messa in pratica la tendenza leopardiana a fare della speculazione filosofica un fatto fondato sulla situazione esistenziale e antropologica del soggetto uomo: l’espressione di una condizione interiore personale si associa (soprattutto nell’Infinito e nella Sera del dì di festa) a un bisogno di interrogazione e di riflessione speculativa, acquistando una valenza conoscitiva e filosofica. Un’altra importante differenza rispetto alle canzoni riguarda il linguaggio, che negli idilli riduce al minimo la componente erudita (classicista e arcaizzante) per scegliere un lessico più comune e piano, nobilitato tuttavia dalla ricerca del «vago» e del «pellegrino». Anche lo stile si avvicina a quello di un colloquio intimo, rifuggendo da inversioni troppo pronunciate o da metafore esibite e inconsuete. Dal punto di vista metrico, è abbandonata la forma della canzone per l’endecasillabo sciolto, più consono a un filone di ricerca voluto da Leopardi il più aperto e sfumato possibile. Il verso sciolto può infatti esprimere senza difficoltà i momenti più distesi e narrativi di questi testi, d’altra parte ben prestandosi anche a registrarne le intensificazioni riflessive ed esistenziali, soprattutto attraverso un ricorso sapientissimo agli enjambements. La scelta dell’endecasillabo sciolto risente anche di alcune composizioni di Monti, da porre all’origine letteraria di queste prove leopardiane insieme a un filone non solo italiano di poesia sentimentale ambientata in un paesaggio naturale (per quest’ultimo tema, cfr. Il paesaggio nei Canti di Leopardi). All’estate del 1822 appartiene l’Inno ai Patriarchi; alla primavera del 1828, risalgono Il risorgimento e A Silvia. Nei sei anni che separano tali titoli Leopardi si dedica soprattutto alla prosa (scrivendo gran parte delle Operette morali) e compone due soli testi poetici: Alla sua donna e Al conte Carlo Pepoli. Entrambi presentano caratteristiche eccezionali, rispetto ai due blocchi precedenti delle canzoni e degli idilli: Alla sua donna è una canzone, ma, diversamente da quelle composte tra il 1818 e il 1822, presenta una schietta tematica amorosa, ispirandosi originalmente al modello petrarchesco; Al conte Carlo Pepoli è un’epistola in versi sciolti (l’unica di Leopardi) e riaffronta i temi filosofico-civili tipici delle canzoni del 1818-22 servendosi di una forma e di un genere nuovi, coerentemente al rinnovamento delle posizioni dell’autore. La collocazione dei due testi nella struttura dei Canti, di cui occupano il centro, serve a mettere in comunicazione la parte più antica delle canzoni e degli idilli con quella invece successiva dei grandi canti pisano-recanatesi, fiorentini e napoletani: è uno snodo formale, in quanto apre a strutture metriche più articolate e mosse, ed è uno snodo ideologico, in quanto propone i temi già presenti dell’amore e della società da un punto di vista radicalmente rinnovato (critico-negativo e pessimistico anziché idealizzato ed eroico). Per valorizzare questa funzione di snodo, Alla sua donna, decima ed ultima delle canzoni stampate a Bologna nel 1824, fin dalla prima edizione dei Canti (1831) veniva separata dalle altre nove (numeri 1-9) e posta al di là degli idilli, in sedicesima posizione (diciottesima, però, a partire dalla seconda edizione, a causa dell’inserimento del Passero solitario e di Consalvo).
L’epistola Al conte Carlo Pepoli, del 1826, aveva pronunciato in via definitiva la rinuncia alla poesia. Alla base di tale distacco stavano, tra loro connesse, ragioni storiche (la impoeticità del moderno), ragioni ideologiche (la caduta del “sistema della natura e delle illusioni” che aveva animato la prima poesia leopardiana), ragioni infine esistenziali (una crisi di sensibilità e di abbandono immaginativo). Nella primavera del 1828, eccezionalmente in sintonia con il clima e con l’ambiente pisano, Leopardi riprende a comporre testi poetici, consegnando in poche settimane Il risorgimento e A Silvia. Nei due anni successivi, a Recanati, nasceranno altri grandi testi (Le ricordanze, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio; forse anche Il passero solitario). Le analogie tematiche o strutturali intercorrenti tra questi componimenti li isolano nel corpo della produzione leopardiana, facendone un momento specifico e ben caratterizzato. È da respingere la definizione di “grandi idilli” spesso utilizzata in passato: essa tende infatti a mettere in risalto la continuità con gli “idilli” giovanili, valorizzando l’aspetto descrittivo-emozionale e respingendo il carattere filosofico-argomentativo. In realtà i due momenti non sono mai scindibili, e la novità di questa nuova fase dell’arte leopardiana consiste innanzitutto nel nuovo punto di incontro tra di essi. Più corretta è dunque l’altra definizione corrente (“canti pisano-recanatesi”), centrata in modo neutro sui luoghi di composizione.
Il primo testo di questa nuova stagione, Il risorgimento (aprile 1828), prende le mosse dalla crisi che aveva provocato il precedente silenzio poetico, ripercorrendone i sintomi sulla base dell’esposizione di Al conte Carlo Pepoli, che non a caso la precede nella meditata struttura dei Canti. Il risorgimento ha una chiara funzione programmatica e, nella prospettiva del libro, strutturale; ma resta formalmente irrisolto ed ancor meno significativo è lo Scherzo composto nel febbraio di quell’anno e dedicato a ironizzare sulla frettolosa trascuratezza delle composizioni poetiche moderne. La prima grande prova delle potenzialità espressive del nuovo atteggiamento, lungamente maturato attraverso l’esperienza delle Operette morali e di pertinenti appunti consegnati allo Zibaldone, è dunque A Silvia, primo esempio di canzone libera.
Il definitivo abbandono di Recanati, nel 1830, e l’impegnativo contatto con l’ambiente fiorentino dei cattolici moderati dell’«Antologia», il presentarsi di nuove e intense esperienze esistenziali, soprattutto d’amore, infine il confronto negli anni napoletani con una tendenza culturale dominante di tipo spiritualistico-regressivo; tutto un insieme insomma inedito e significativo di vicende spinse Leopardi, nei sei o sette anni conclusivi della propria vicenda biografica, a tentare un nuovo, radicale rinnovamento poetico. A mettere inizialmente in moto tale rinnovamento è l’esperienza dell’amore, vissuta con intensità negli anni fiorentini tra il 1830 e il 1833. A suscitare la violenta passione del poeta fu la bellissima Fanny Targioni Tozzetti, da lui amata senza essere ricambiato. La donna è chiamata «Aspasia» solo nell’ultimo dei testi a lei dedicati. “Aspasia” è il nome di una prostituta amata da Pericle; il significato «infamante» (Peruzzi) dal punto di vista etimologico (il termine significa all’incirca ‘donna da letto’) ne rende in qualche modo impropria l’utilizzazione, ormai consueta, per l’intero ciclo (che alcuni studiosi definiscono infatti “canti dell’amore fiorentino”). Tale ciclo si compone di cinque testi composti tra la primavera del 1831 e quella del 1834. Il più antico è con ogni probabilità Il pensiero dominante, ostinatamente dedicato a una definizione e rappresentazione concettuale dell’amore. Le altre liriche del “ciclo” sono Amore e morte, Consalvo, A se stesso e Aspasia. Valutando l’insieme del ciclo, è bene sottolineare come, nei momenti espressivi e concettuali più alti (e soprattutto nel Pensiero dominante e in Amore e morte), l’esperienza della passione amorosa si qualifichi al di fuori della tradizione lirica del petrarchismo, e si svincoli d’altra parte anche dai suoi aggiornamenti più radicali, mediati da Tasso e poi dalla recente letteratura preromantica e romantica (dall’Ossian al Werther). La radicalità dell’esperienza amorosa costringe a rivisitare l’intero sistema concettuale e filosofico che presiede alla meditazione e alla scrittura leopardiana. Si conferma una volta di più il legame intimo tra esperienza personale e riflessione filosofica. Da questo punto di vista l’amore costituisce una sorta di illusione non consumabile, cioè non smascherabile mai per intero dalla ragione e non cedevole davanti agli attacchi dell’età adulta. Esso è dunque la dimostrazione più profonda dell’infelicità umana, dato che amando si concepisce e accarezza con l’immaginazione una ipotesi di felicità poi non effettivamente realizzabile; ma, al tempo stesso, è la maggiore consolazione concessa dal fato agli uomini, che attraverso questa illusione possono affrontare consapevolmente il male della vita. Per questo l’amore si associa alla morte quale bene supremo per gli uomini. La formulazione del binomio “amore e morte” (oggetto esplicito di uno dei testi del ciclo) sancisce una nuova apertura eroica per il soggetto, che se sperimenta l’amore può sfidare la morte e perfino invocarla.
La centralità del soggetto biografico, riscontrabile nel "ciclo di Aspasia" come già nella stagione dei grandi canti pisano-recanatesi, lascia il posto, nella struttura dei Canti (corrispondente in questo caso alla successione cronologica della produzione leopardiana), a una ricerca fondata su interrogazioni oggettive di carattere filosofico. Quanto nelle canzoni d’amore domina il coinvolgimento emotivo, tanto in quelle successive è tentato un esercizio di distacco e di obiettività. Accanto a testi di più diretto impegno ideologico-politico, come la Palinodia e la Ginestra, si collocano le due canzoni sepolcrali, composte probabilmente tra il 1834 e il 1835, a Napoli.
Entrambe affrontano il tema della morte, con una ripresa del precedente foscoliano dei Sepolcri e di una tradizione tematica assai diffusa nel periodo neoclassico e preromantico. I testi leopardiani si distinguono però per un più vivo senso della caducità e della perdita, le quali vengono rappresentate senza alcuna prospettiva di possibile riscatto, né umanistico come in Foscolo né religioso come in tanta poesia sepolcrale preromantica. La morte riacquista in Leopardi la dimensione tragica del lutto che è presente in certi scrittori classici. L’esperienza della perdita diviene l’occasione per interrogare energicamente l’intera vicenda umana, sottoponendo a una verifica esistenziale la condizione dei viventi. Vengono in tal modo coinvolti nell’analisi tutti i grandi temi già sperimentati dalla ricerca leopardiana: la natura, il piacere, il dolore, il senso dell’esistenza. Le due canzoni sepolcrali (Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire, accomiatandosi dai suoi e Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima) sono per molti aspetti testi gemelli, condividendo il tema e la disposizione dilemmatica della ricerca. In entrambe le canzoni si affiancano ingredienti appassionati e partecipi, commossi e vibranti, da una parte, e un tono distaccato e perfino sarcastico, dall’altra. L’interrogarsi dolente non esclude un falsetto e una leggerezza che implicano la consapevolezza di parlare di questioni essenziali dal limitatissimo punto di vista dell’esperienza umana: il tema impegnato rifiuta il linguaggio dell’assoluto e sceglie di affidarsi a un’alternanza di interrogazioni o dilemmi trepidanti e di risposte desolate e secche; la pietà si riversa sulle domande e rifugge dalle risposte, improntate alla sconsolata ipotesi pessimistica che sta al fondo del sistema leopardiano.
Al periodo napoletano, che abbraccia gli ultimi tre anni e mezzo di vita del poeta, appartengono le estreme composizioni leopardiane: i Paralipomeni della Batracomiomachia (già iniziati però a Firenze nel 1831), il capitolo in terza rima I nuovi credenti, la Palinodia al marchese Gino Capponi, Il tramonto della luna e La ginestra, o il fiore del deserto. Del libro dei Canti non fanno ovviamente parte, per la struttura poematica, i Paralipomeni; e ne viene esclusa anche la polemica — troppo diretta e risentita — dei Nuovi credenti, rivolta a deridere il rinascente spiritualismo dell’arretrato ambiente culturale napoletano. Già nella seconda edizione (la napoletana del 1835) viene invece inserita la Palinodia, appena composta. Il tramonto della luna e La ginestra — nate nell’ultimo anno di vita del poeta — troveranno posto soltanto nell’edizione postuma curata da Ranieri, andando a collocarsi quale conclusione effettiva del libro. Dei cinque testi poetici sopra ricordati, ben tre (Paralipomeni, Nuovi credenti e Palinodia) sono dominati da una prospettiva intensamente satirica; e questa attraversa più di un luogo della stessa Ginestra, definendosi così quale cifra stilistica dominante dell’ultimo Leopardi. È come se l’atteggiamento obliquo e dissacratore che caratterizza le Operette morali (e soprattutto quelle più antiche, del 1824) fosse infine penetrato anche all’interno della scrittura poetica. Questa sembra ora rinunciare ai presupposti di poetica sui quali si fondava la precedente ricerca leopardiana: l’amore del vago e dell’indefinito, la tensione verso il passato e la memoria, il sentimento della perdita, l’interrogazione esistenziale, la difesa e la restituzione — sia pure illusoria — di un modo di sentire “antico”, dominato ancora dall’immaginazione e non subordinato del tutto agli idoli moderni del ragionamento filosofico e tecnico-scientifico e della conoscenza esatta. Leopardi sembra ora interessato piuttosto a prendere posizione nel dibattito vivo e attuale della società italiana, contrastando con veemenza la ripresa di tendenze irrazionalistiche e spiritualistiche di tipo antilluministico, nonché i facili miti sociali e politici dei moderati cattolico-liberali. Con la ginestra, o il fiore del deserto, composta a Torre del Greco, nei pressi di Napoli, nella primavera del 1836, Leopardi consegna quello che può in qualche modo essere considerato il suo testamento ideale. Il paesaggio desolato del Vesuvio è il luogo-simbolo della condizione umana sulla terra, e consente di smentire ogni facile ottimismo consolatorio. Su questa considerazione si innesta la critica, condotta con acuto disprezzo, per le tendenze filosofiche dominanti negli anni della Restaurazione, improntate a uno spiritualismo religioso e a una prospettiva sociale progressista, ma in ogni caso fiduciose nel valore privilegiato della specie umana. La lingua dei Canti è il risultato di una sedimentazione di innumerevoli elementi della tradizione, vicina e lontana, classica e volgare. La scelta del campo classicista e il rifiuto delle recenti parole d’ordine del Romanticismo implicano per Leopardi, un bisogno di restare in contatto con la poesia antica, considerata quale unica chiave di accesso all’immaginazione primitiva e alla natura, cioè alla poesia. Dunque Leopardi immagina la propria ricerca nel solco del classicismo di Parini, Alfieri, Monti e Foscolo. Di questi poeti, e soprattutto di Monti, egli vede anche i limiti, e non manca di consegnare diagnosi spietate alle pagine private dello Zibaldone. Quello che però si ritrova nei poeti classicisti e non invece nei romantici è, agli occhi di Leopardi, il senso dell’antichità della lingua e la distinzione netta dall’uso parlato e dalla prosa. L’eleganza infatti consiste per Leopardi appunto in questi due requisiti. Al di là di questo importantissimo dato di fondo, a Parini lo legherà poi, oltre che l’adesione alle categorie del sensismo, la sensibilità ai temi civili e impegnati; ad Alfieri il piglio agonistico ed eroico, cioè la soggettività preromantica; a Foscolo un comune interesse per i grandi temi esistenziali e filosofici, possibilmente orientati in prospettiva sociale. Da tutti questi poeti, e dallo stesso Monti, i versi dei Canti sapranno ricavare suggestioni, spunti, tecniche. Il bisogno di dare all’espressione lirica dei Canti una lingua antica e distinta il più possibile dall’uso caratterizza anche il rapporto di Leopardi con Petrarca, il creatore di una lingua speciale della lirica. Il petrarchismo dei Canti è un dato centrale in ogni senso: linguistico, stilistico, ideologico. Si può però dire, con una formula, che Leopardi rilegge (e riutilizza) Petrarca attraverso il classicismo sette-ottocentesco, cioè attraverso il punto di vista della modernità. Nei Canti si registrano innumerevoli punti di incontro con il Canzoniere petrarchesco; tuttavia è per lo più ben percepibile lo scarto temporale, così che la ripresa serve a dare profondità storica e specificità al discorso (a renderlo antico e speciale, come Leopardi chiede) e, contemporaneamente, a stabilire una distanza, un salto (che è il segno della modernità). Il modo più evidente e più significativo in cui tale procedura si realizza consiste nella ripresa da Petrarca di materiali linguistici e figurativi, sottoposti però a un rovesciamento ideologico. Accade così nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, per molti aspetti riscritto sul modello della canzone L del Canzoniere («Ne la stagion che ’l ciel rapido inchina»), e però radicalmente sottratto alle coordinate filosofiche di essa. È chiaro, infine, che il modello cristiano messo in opera da Petrarca è ripreso e rovesciato da Leopardi. Tuttavia il rovesciamento di Petrarca avviene anche in modi meno espliciti, e per esempio riprendendo il modello della canzone petrarchesca ma svuotandolo e forzandolo a poco a poco verso esiti metrici radicalmente nuovi e moderni: la canzone libera leopardiana, appunto.
Non mancano poi altre importanti ragioni di distanza da Petrarca, sia per quanto riguarda lo statuto del soggetto lirico, che in Leopardi perde la sua natura istituzionale e si concretizza, sia per il rifiuto nei Canti del paesaggio-stato d’animo (cfr. Il paesaggio nei Canti), topos invece essenziale nella vicenda del Canzoniere. Centrale nel sistema delle forme e dei metri romantici, la canzonetta non ha nessuna rilevanza nei Canti, dove conta un’unica presenza (Il risorgimento). E d’altra parte il sonetto e l’ode, altrettanto decisivi per il versante classicistico e anche di recente illustrati dall’esempio di Foscolo, sono del tutto assenti dai Canti. Già queste due considerazioni bastano a segnalare l’originale posizione leopardiana anche per quel che riguarda le scelte metriche e formali. Tuttavia, tale originalità non si configura quale audace innovazione metrica, ma piuttosto quale modificazione graduale, e commisurata ai propri generali bisogni espressivi, di forme metriche tradizionali. Nei Canti non vi sono metri diversi dall’endecasillabo e dal settenario, i versi portanti della tradizione lirica italiana. Tuttavia Leopardi forza tali metri verso sonorità nuove e personali, sia attribuendo all’enjambement una funzione di primo piano, sia investendo il rapporto tra respiro metrico e respiro sintattico di un’eccezionale carica espressiva. I Canti presentano quasi esclusivamente due tipi metrici: la canzone (ventuno testi) e l’endecasillabo sciolto (undici testi). Restano esclusi la canzonetta sopra ricordata e le terzine incatenate del Primo amore (prescindendo da testi secondari quali l’Imitazione, lo Scherzo e i Frammenti). Questa semplificazione dei tipi non esclude poi, come si è appena accennato, una diversa utilizzazione della medesima forma, cioè una sua evoluzione nel tempo e una funzionalizzazione ai diversi contesti espressivi.Basti pensare, per indicare solo un dato macroscopico, che, delle ventuno canzoni, dodici sono canzoni libere (una di queste, A se stesso, è in verità formata da un’unica strofa), e che le altre nove si distinguono tutte, e in modi diversi, dal tipo di canzone cui pure tutte fanno riferimento, quella petrarchesca. La scelta della canzone quale forma metrica fondamentale si giustifica con la sua tradizione eccelsa: almeno a partire da Dante e Petrarca, essa corrisponde infatti al livello più illustre e impegnato del discorso lirico, e ben si addice dunque ai temi civili affrontati da Leopardi tra il 1818 e il 1822. Dal modello petrarchesco fondamentale Leopardi si affranca a poco a poco, mettendo a punto una serie di innovazioni, originali o ispirate alla tradizione rinascimentale, barocca e arcadica. Tornando a scrivere canzoni nel 1828, dopo cinque anni, Leopardi produsse infine, a partire da A Silvia, un tipo di canzone radicalmente mutato, definito canzone libera o, appunto, leopardiana. L’altra forma metrica fondamentale dei Canti, l’endecasillabo libero, o sciolto, ha alle spalle una tradizione meno lunga e meno nobile della canzone, nascendo nel Cinquecento e affermandosi pienamente soltanto nella seconda metà del Settecento, quando diviene uno dei metri più in voga.. Lo sciolto è impiegato di solito per usi didascalici, ma si presta bene anche al genere dell’epistola in versi e della satira. Gli esempi illustri di Parini e dei Sepolcri foscoliani incoraggiavano tuttavia anche usi civilmente impegnati. Su questa linea si collocano alcuni componimenti dei Canti, come l’epistola Al conte Carlo Pepoli e la Palinodia al marchese Gino Capponi. Prevale però nei Canti un uso più strettamente lirico dell’endecasillabo sciolto, come negli idilli del 1819-21. Per questo impiego, Leopardi si è rifatto all’esempio di Monti, che negli Sciolti a Sigismondo Chigi e nei Pensieri d’amore aveva adibito il verso sciolto alla libera espressione lirica degli affetti e alla rappresentazione del rapporto io/paesaggio. Nonostante questo modello, la soluzione leopardiana risulta intensamente originale, data la forte connotazione concettuale anche della poesia idillica (si pensi all’Infinito).
Anche nella lingua e nello stile dei Canti si osserva la tendenza leopardiana a rinnovare lo statuto tradizionale della lirica senza strappi vistosi. Può essere per esempio registrata l’introduzione di una componente squisitamente prosastica in molti testi leopardiani; e non solo in quelli più palesemente “parlati” (come A se stesso o la Palinodia) ma anche in alcuni dei più “cantabili”: nella Quiete dopo la tempesta, poniamo, c’è la «gallina»; in A Silvia prevale una disposizione tutt’altro che eccezionale della sintassi. Ma a questa significativa dose di “prosa”, Leopardi accompagna un’accuratissima serie di provvedimenti, soprattutto fonici e legati al rapporto tra pause sintattiche e pause metriche; così da creare una musicalità nuova e personale, tutt’altro che scontata, anche se affidata a involucri in apparenza ultracollaudati come la canzone e i metri, canonici, dell’endecasillabo e del settenario. Il ricorso alla “prosa” nei Canti non riguarda però la lingua in senso stretto, nonostante l’eccezione della Palinodia (che ha «sigari», «pasticcini», «gelati», «bevande», «tazze», «cucchiai», e poi «gazzette», «boa», «giornale», «vapor» per “ferrovia”, «cholèra» e «walser»; e tanti altri ancora): «nei Canti si cercherebbero a fatica non solo neologismi, ma anche voci non autorizzate dalla lingua poetica della tradizione» (Serianni). Infatti la lingua cui Leopardi mira è una lingua canonica sottratta in qualche modo alla storia, una lingua dalla quale deve innanzitutto sprigionarsi il senso di diversità nei confronti del presente, cioè dalla modernità. Le scelte linguistiche di Leopardi risentono tra l’altro profondamente di una intensa elaborazione teorica intorno alla lingua in sé e intorno alla lingua della poesia in particolare. La predilezione per voci che esprimano vaghezza, distanza, indefinitezza, e d’altra parte per parole rare e per usi peregrini, discosti dalla norma, si fonda in particolare sulla distinzione tra “termini” e “parole”. I termini «presentano la nuda e circoscritta idea» dell’oggetto cui si riferiscono, e risultano quindi particolarmente adatti all’uso tecnico-scientifico. Le parole, invece, «non presentano la sola idea dell’oggetto significato, ma quando più quando meno, immagini accessorie», e risultano dunque le più confacenti all’uso poetico. Nei Canti Leopardi persegue una funzionalizzazione massima delle parole secondo la prospettiva aperta da questa loro possibile significazione multipla, che non comporta, si badi bene, imprecisione e sfocatezza, ma complessità e ricchezza, ovvero, come si esprime Leopardi, facoltà di rappresentare più idee nello stesso tempo, a favorire nel lettore i «piaceri dell’immaginazione». Tra le parole che Leopardi giudicava più poetiche possono essere ricordate «ultimo», «mai più», «l’ultima volta», «oscurità», «profondo», «lontano», «antico», «irrevocabile», «futuro», «passato», «eterno», «lungo», «alto», «solitudine», «deserto», ecc.; tutte parole che implicano un’idea di vastità, di indefinitezza, di eccezionalità ecc.
Lo stile poetico di Leopardi è a sua volta dipendente da una intensa riflessione teorica; esso dev’essere dunque anticheggiante, ma senza fingere naturalezza (come accade invece in Monti). È anzi proprio attraverso lo stile che soprattutto risulta possibile distinguere l’espressione poetica dalla prosa e dall’uso comune.Sullo stile dei Canti c’è da distinguere innanzitutto, per i testi che vanno fino al 1823, tra canzoni civili e idilli. La pratica dei due generi, infatti, implica il ricorso a due registri stilistici completamente diversi. Le canzoni presentano uno stile teso, aulico, elaborato; una sintassi ampia, fondata sulla ipotassi, sulla inversione (con frequenti iperbati e anastrofi) e sull’impiego di figure retoriche ardite. Gli idilli ricercano invece soluzioni stilistiche più dirette e colloquiali, più intime e discrete; e si affidano pertanto a una sintassi più elementare e piana, ricorrendo spesso anche alla paratassi.