È il sonetto proemiale della raccolta, scritto probabilmente intorno al 1350 e quindi posteriore alla morte di Laura, come dimostra il fatto che l'autore guarda in modo retrospettivo al suo amore infelice: Petrarca lo definisce un "giovenile errore" dal quale si è in parte liberato con la maturità, consapevole di essere venuto meno alla sua dignità di intellettuale e di essersi esposto alle derisioni del mondo, con una concezione classica che rimanda forse al carme 8 di Catullo. La raffinatezza retorica della costruzione impreziosisce la lirica, che apre il "Canzoniere" con uno stile decisamente elevato e ricercato.
Metro: sonetto con schema della rima ABBA, ABBA, CDE, CDE (A ed E sono una quasi-rima, -ono/-ogno). Le prime due quartine sono un unico periodo, aperto dall'allocuzione ai lettori ("Voi ch'ascoltate") e retto dal verbo finale ("spero trovar"), con anacoluto. Numerose e insistite le figure retoriche che impreziosiscono lo stile: ripetizione di -ri nei primi vv. ("rime", "sospiri", "nudriva"), di -va nella seconda quartina ("vario", "vane", "van", "prova", "trovar"); chiasmo ai vv. 5-6 ("piango-ragiono / speranze-dolore"); allitterazione della "f" al v. 10 ("favola fui"), della "m" al v. 11 ("me medesmo meco mi") e della "v" al v. 12 ("vaneggiar vergogna"), sempre in posizione iniziale per sottolineare il sentimento di condanna verso se stesso. Il polisindeto ai vv. 12-13 ("et... e... e...") rende incalzante l'elenco delle conseguenze negative dell'amore e del rimpianto espresso dall'autore.
Petrarca si rivolge ai lettori in grado di comprendere per esperienza le pene amorose, con un topos che rimanda a molte liriche dello Stilnovo (Donne ch'avete intelletto d'amore), anche se l'effusione del sentimento da parte sua sarà spesso un soliloquio: il poeta chiede perdono per i lamenti da lui prodotti nell'illusione di un amore infelice, che ora (a distanza di anni e col bagaglio della raggiunta maturità) egli giudica un "giovenile errore" e un "vaneggiare", poiché tutto quello che piace al mondo è un sogno destinato a finire presto. Petrarca è anche consapevole che l'aver perso tempo dietro a Laura lo ha distolto dalla sua "missione" di intellettuale impegnato e lo ha esposto alla derisione del volgo, tema tipicamente classico che rimanda, forse, al carme 8 di Catullo ("Miser Catulle, desinas ineptire / et quod vides perisse perditum ducas", "Povero Catullo, smetti di fare il pazzo e ritieni perduto ciò che hai visto che è andato perduto"). La paura di essere deriso dal volgo tornerà anche nel sonetto Solo et pensoso (35), in cui l'autore rifugge la compagnia degli altri uomini per non svelare la sua condizione interiore.
Il sonetto apre la raccolta, ma potrebbe idealmente chiuderla per la visione retrospettiva dell'amore infelice e la sua condanna in quanto illusione vana, e si ricollega alla canzone finale dedicata alla Vergine, di profonda ispirazione religiosa e in cui Laura è impietosamente definita come "terra", un misero corpo mortale che pure provocò tante sofferenze al poeta: le liriche comprese tra questi due termini raccontano in realtà il processo di questo amore vano e infelice, chiarendo che la condanna espressa da Petrarca è tutt'altro che definitiva e che il rimpianto non è del tutto cessato in lui, pur tormentato da ansie religiose. In questi dubbi irrisolti sta la modernità dell'autore rispetto alla tradizione precedente, specie nella sua incapacità di decidere tra l'abbracciare una vita votata ai princìpi religiosi o il perseguire "quanto piace al mondo", tra cui l'amore terreno e la gloria letteraria.