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Libro

Greco IV

7. Euripide: la vita

7.2. La conoscenza generale delle trame delle tragedie: Alcesti, Medea, Elena e Baccanti

In Alcesti nel prologo il dio Apollo narra di essere stato condannato da Zeus a servire come schiavo nella casa di Admeto, re di Fere in Tessaglia, per espiare la colpa di aver ucciso i Ciclopi come vendetta consequenziale all'uccisione del figlio Asclepio per mano di Zeus stesso. Grazie alla sua benevola accoglienza, Apollo nutriva per Admeto un grande rispetto, tanto da esser riuscito ad ottenere dalle Moire che l'amico potesse sfuggire alla morte, a condizione che qualcuno si sacrificasse per lui. Nessuno, tuttavia, era disposto a farlo, né gli amici, né gli anziani genitori: solo l'amata sposa Alcesti si era detta pronta. Quando sulla scena arriva Thanatos, la Morte, Apollo tenta inutilmente di evitare la morte della donna e si allontana, lasciando la casa immersa in un silenzio angoscioso. Con l'ingresso del coro dei cittadini di Fere si apre la tragedia vera e propria. Mentre i coreuti piangono per la sorte della regina, una serva esce dal palazzo e annuncia che Alcesti è ormai pronta a morire, anche se vinta dalla commozione per la sorte della sua famiglia. Grazie all'aiuto di Admeto e dei figli, appare direttamente sulla scena per pronunciare le sue ultime parole: saluta la luce del sole, compiange se stessa, accusa i suoceri, che egoisticamente non hanno voluto sacrificarsi, e consola il marito. Dopo essersi fatta promettere dal marito di non essere sostituita da un'altra donna, Alcesti muore.

Dopo i tristi commenti del figlioletto, di Admeto e del Coro, arriva sulla scena Eracle, intento in una delle dodici fatiche, per chiedere ospitalità. Admeto lo accoglie con generosità, pur non nascondendogli la propria afflizione, tanto da essere costretto a spiegargliene il motivo. Racconta all'eroe che è morta una donna che viveva nella casa, ma non era consanguinea, così da non metterlo a disagio, pur nascondendo in qualche modo la verità dei fatti. Prima dei funerali sopraggiunge Ferete, padre di Admeto, per portare in dono una veste funebre: il re lo respinge stizzito, accusandolo di essere il colpevole della morte della moglie, ma si sente accusare di essere solo un codardo. A questo punto, il Coro esce di scena (espediente prima di allora usato solo da Eschilo nell'Orestea), e si conclude la sezione più propriamente "tragica" dell'opera; in quella successiva il dramma si risolve positivamente. Entra in scena un servo che si lamenta del comportamento di Eracle, il quale, senza riguardo per la situazione, si è perfino ubriacato. Anche se gli era stato ordinato di non farlo, lo schiavo decide di rivelare a Eracle la verità: la donna "non consanguinea" morta, in realtà, è la moglie di Admeto. L'eroe, fortemente pentito, decide così di andare all'Ade per riportarla in vita. Dopo il terzo stasimo, contenente un elogio di Admeto e Alcesti, Eracle ritorna con una donna velata, fingendo di averla "vinta" a dei giochi pubblici, per mettere alla prova la sua fedeltà. Admeto, inizialmente, ha quasi orrore a toccarla, convinto che sia un'altra, e acconsente a guardarla solo per compiacere il suo ospite. Tolto il velo, si scopre che la donna è Alcesti, ora restituita all'affetto dei suoi cari. Eracle spiega che non le è consentito parlare per tre giorni, il tempo necessario per essere "sconsacrata" agli inferi.

Nellomonima tragedia, dopo aver aiutato il marito Giasone e gli Argonauti a conquistare il vello doro, Medea si è trasferita a vivere a Corinto, insieme al consorte ed ai due figli, abbandonando il padre per seguire il marito. Dopo alcuni anni però Giasone decide di ripudiare Medea per sposare Glauce, la figlia di Creonte, re di Corinto. Questo infatti gli darebbe diritto di successione al trono.

La donna si lamenta col coro delle donne corinzie in modo disperato e furioso, scagliando maledizioni sulla casa reale, tanto che il re Creonte, sospettando una possibile vendetta, le intima di lasciare la città. Nascondendo con abilità i propri sentimenti, però, Medea resta ancora un giorno, che le servirà per attuare il proprio piano. Medea rinfaccia a Giasone tutta la sua ipocrisia e la mancanza di coraggio, ma Giasone sa opporre solo banali ragioni di convenienza. Di fronte all'indifferenza del marito, la donna attua la sua vendetta.

Innanzitutto ottiene dal re di Atene Egeo (di passaggio per Corinto) la promessa di ospitarla nella propria città, offrendo di mettere al suo servizio le proprie arti magiche per dargli un figlio, poi, fingendosi rassegnata, manda in dono alla futura sposa di Giasone una ghirlanda e una veste avvelenata. La ragazza, indossatele, muore tra atroci tormenti poiché viene bruciata da un rivolo di fuoco che scendeva dalla ghirlanda e scarnificata dalla veste stessa e la stessa sorte tocca a Creonte, accorso per aiutarla. Tale scena è raccontata da un messaggero. A quel punto Giasone accorre per salvare almeno la sua prole, ma appare Medea sul carro alato del dio Sole, che gli mostra i cadaveri dei figli che ella, pur straziata nel cuore, ha ucciso, privando così Giasone di una discendenza. Alla fine la donna vola verso Atene lasciando il marito a maledirla, distrutto dal dolore.

In Elena, la donna a causa della quale scoppiò la guerra di Troia in realtà non è mai andata in quella città. La dea Era aveva infatti creato un fantasma dotato di respiro, fatto con un pezzo di cielo, [] un vuoto miraggioin tutto simile ad Elena. Il fantasma era andato con Paride a Troia, all'insaputa di tutti, mentre la vera Elena era stata nascosta da Ermes in Egitto, ospite del re Proteo.

Alla morte di Proteo, il figlio Teoclimeno insidia Elena, che rifiuta le sue offerte, anche perché la sorella di Teoclimeno, la sacerdotessa Teonoe (capace di vedere il futuro), le ha predetto che rivedrà il marito Menelao. Elena sta pensando alla sua triste sorte, quando vede arrivare il messaggero greco Teucro. Questi informa Elena che le navi con cui Menelao tornava da Troia verso casa sono state colpite da una tempesta, e che Menelao stesso è morto.

Elena racconta al coro l'incontro avuto con Teucro, e insieme si domandano quanto ci sia di vero nelle sue parole. Decidono di rivolgersi a Teonoe per saperne di più. Nel frattempo Menelao è naufragato proprio in Egitto, insieme ad Elena (il fantasma) e all'equipaggio, ed è andato in cerca di aiuto lasciando gli altri accampati in una grotta. Menelao arriva al palazzo di Teoclimeno, dove una vecchia serva cerca di cacciarlo; poco dopo il greco incontra Elena, ed è incredulo, perché credeva che Elena fosse insieme al suo equipaggio.

Arriva un messaggero, che informa Menelao che Elena (il fantasma) è scomparsa. Allora Menelao finalmente capisce quello che è successo, mentre la vera Elena gli racconta di non essere mai stata a Troia. A quel punto i due si recano da Teonoe, che grazie ai suoi poteri è l'unica che sappia che Menelao è in Egitto, e la supplicano di non rivelare questo segreto. La sacerdotessa si mostra solidale coi due. Resta però il problema di come fuggire, non avendo più una nave. I due decidono che Elena dirà a Teoclimeno di aver saputo che Menelao è morto, e di essere quindi finalmente disposta a risposarsi, purché il re le consenta di fare un rito in memoria del marito morto, una breve cerimonia che va fatta su una nave in mare aperto.

Menelao vede Elena per la prima volta e se ne innamora. Afrodite ed Eros guardano la scena.

Menelao si presenta al palazzo di Teoclimeno fingendosi un messaggero, e porta la notizia della morte di Menelao stesso. Elena allora chiede e ottiene dal re egiziano una nave con equipaggio per compiere il rito, dicendogli che in Grecia è questo il modo di onorare chi muore in mare.

Elena si prepara per il rito, e Teoclimeno le fornisce una nave fenicia ed un equipaggio.

Elena e Menelao, con l'equipaggio dato loro da Teoclimeno, mettono in mare la nave, ma appena prima che salpino, arrivano gli uomini di Menelao. Con la scusa di prendere parte al rito, salgono tutti sulla nave, tra la perplessità degli uomini di Teoclimeno. Appena la nave raggiunge il largo, Menelao e i suoi uomini sopraffanno l'equipaggio e scappano verso la Grecia. Questi fatti vengono narrati a Teoclimeno da un messaggero. Fuori di sé dalla rabbia, il re vorrebbe allora uccidere la sorella Teonoe, che si è resa complice della fuga, ma viene trattenuto da una schiava. Appaiono infine i Dioscuri ex machina che placano l'ira del re.

Nelle Baccanti si racconta di Dioniso, dio del vino, del teatro e del piacere fisico e mentale in genere, nato dall'unione tra Zeus e Semele, donna mortale. Tuttavia le sorelle della donna e il nipote Penteo (re di Tebe) per invidia sparsero la voce che Dioniso in realtà non era nato da Zeus, ma da una relazione tra Semele e un uomo mortale, e che la storia del rapporto con Zeus era solo uno stratagemma per mascherare la "scappatella". In sostanza, quindi, essi negavano la natura divina di Dioniso, considerandolo un comune mortale.

Nel prologo della tragedia, Dioniso afferma di essere sceso tra gli uomini per convincere tutta Tebe di essere un dio e non un uomo. A tale scopo per prima cosa ha indotto un germe di follia in tutte le donne tebane, che sono dunque fuggite sul monte Citerone a celebrare riti in onore di Dioniso stesso (diventando quindi Baccanti, ossia donne che celebrano i riti di Bacco, altro nome di Dioniso).

Questo fatto però non convince Penteo: egli rifiuta strenuamente di riconoscere un dio in Dioniso, e lo considera solo una sorta di demone che ha ideato una trappola per adescare le donne. Invano Cadmo (nonno di Penteo) e Tiresia (indovino cieco) tentano di dissuaderlo e di fargli riconoscere Dioniso come un dio. Il re di Tebe fa allora arrestare lo stesso Dioniso (che si lascia catturare volutamente) per imprigionarlo, ma il dio scatena un terremoto che gli permette di liberarsi immediatamente.

Nel frattempo dal monte Citerone giungono notizie inquietanti: le donne che compiono i riti sono in grado di far sgorgare vino, latte e miele dalla roccia, e in un momento di furore dionisiaco si sono avventate su una mandria di mucche, squartandole vive con forza sovrumana. Hanno poi invaso alcuni villaggi, devastando tutto, rapendo bambini e mettendo in fuga la popolazione. Dioniso, parlando con Penteo, riesce allora a convincerlo a mascherarsi da donna per poter spiare di nascosto le Baccanti. Una volta che i due sono giunti sul Citerone, però, il dio aizza le Baccanti contro Penteo. Esse sradicano l'albero sul quale il re si era nascosto, si avventano su di lui e lo fanno letteralmente a pezzi. Non solo, ma la prima ad infierire su Penteo, spezzandogli un braccio, è sua madre Agave.

Questi fatti vengono narrati a Cadmo da un messaggero che è tornato a Tebe dopo aver assistito alla scena. Poco dopo arriva anche Agave, munita di un bastone sulla cui sommità è attaccata la testa di Penteo che lei, nel suo delirio di Baccante, crede essere una testa di leone. Cadmo, sconvolto di fronte a quello spettacolo, riesce pian piano a far rinsavire Agave, che infine si accorge con orrore di ciò che ha fatto. A quel punto riappare Dioniso ex machina, che spiega di aver architettato questo piano per punire chi non credeva nella sua natura divina, e condanna Cadmo e Agave a essere esiliati in terre lontane. Con l'immagine di Cadmo e Agave che, commossi, si dicono addio, si conclude la vicenda.

26.1.3 Linnovatore della forma tragica: la lingua e lo stile

Le peculiarità che distinguono le tragedie euripidee da quelle degli altri due drammaturghi sono, da un lato, la ricerca di sperimentazione tecnica attuata da Euripide in quasi tutte le sue opere e, dall'altro, la maggiore attenzione che egli presta alla descrizione dei sentimenti, di cui analizza l'evoluzione che segue il mutare degli eventi narrati].

La struttura della tragedia euripidea è molto più variegata e ricca di novità rispetto al passato, soprattutto per effetto di nuove soluzioni drammatiche, per un maggiore utilizzo del deus ex machina, in particolare nelle tragedie più tarde, e per la progressiva svalutazione del ruolo drammatico del coro, che tende ad assumere una funzione di pausa nell'azione. Anche lo stile risente della ricerca euripidea di rompere con la tradizione, mediante l'inserimento di parti dialettiche per allentare la tensione drammatica e l'alternanza delle modalità narrative.

La novità assoluta del teatro euripideo è comunque rappresentata dal realismo con il quale il drammaturgo tratteggia le dinamiche psicologiche dei suoi personaggi. L'eroe descritto nelle sue tragedie non è più il risoluto protagonista dei drammi di Eschilo e di Sofocle, ma sovente una persona problematica ed insicura, non priva di conflitti interiori, le cui motivazioni inconsce vengono portate alla luce ed analizzate.

 

Proprio lo sgretolamento del tradizionale modello eroico porta alla ribalta del teatro euripideo le figure femminili.Euripide però dava delle connotazioni negative a queste donne, infatti molti studiosi delle sue opere, lo definirono "Misogino" (cioè colui che odia le donne), mentre altri pensavano che lui considerasse le donne perfette, e con questi testi voleva riuscire a trovare quel poco di peccatrice che c'è in loro. Le protagoniste dei drammi, come Andromaca, Fedra e Medea, sono le nuove figure tragiche di Euripide, il quale ne tratteggia sapientemente la tormentata sensibilità e le pulsioni irrazionali che si scontrano con il mondo della ragione.

 

Euripide espresse le contraddizioni di una società che stava cambiando: nelle sue tragedie spesso le motivazioni personali entrano in profondo contrasto con le esigenze del potere e con i vecchi valori fondanti della polis. Il personaggio di Medea, ad esempio, arriva a uccidere i propri figli pur di non sottostare al matrimonio di convenienza di Giasone con Glauce, figlia di Creonte re di Corinto. Aristofane, il maestro riconosciuto della commedia, ci offre ne Le rane la cronaca del tempo riguardo alla disputa fra i tragediografi, e del pubblico che parteggiava per l'uno o per l'altro, presentando Euripide come un rozzo portatore di nuovi costumi.

 

Il teatro di Euripide va, dunque, considerato come un vero e proprio laboratorio politico, non chiuso in se stesso ma, al contrario, affine ai mutamenti della storia fino all'accettazione ultima del regno di Macedonia.

26.1.4 Approfondimento del tema della guerra nellopera Le Troiane

In tutto il dramma la presenza viva ed acuta del dolore si congiunge con la convinzione dell'eroicità della sventura di fronte alla vittoria dei distruttori. Tale vittoria è però solo apparente, poiché ognuna delle protagoniste dell'opera trova il modo di reagire, a proprio modo, alla tremenda sventura che le ha colpite. I vincitori, invece, che sono poi alcuni dei più grandi eroi della mitologia greca, si comportano solo come insensati aguzzini, capaci della più bruta barbarie senza la minima remora. Le donne troiane insomma hanno perso tutto, ma non la loro dignità umana, che invece gli spietati soldati greci sembrano non aver mai posseduto.

L'opera, come anche l'Elena e le Supplici dello stesso autore, è venata da un evidente antimilitarismo. Troia è caduta, gli uomini sono stati uccisi e alle donne troiane si apre la prospettiva di trascorrere nella schiavitù il resto dei loro giorni. Tutto insomma è già avvenuto, e niente resta a parte i morti e il dolore dei sopravvissuti. Risulta evidente la centralità del punto di vista dei vinti e non dei vincitori: questo tipo di prospettiva (già adottato da Eschilo nei Persiani) evidenzia non tanto l'eroismo di chi vince, quanto la disperazione dei vinti, con lo scopo di gettare luce sulle sofferenze portate dai conflitti armati.

26.1.5 Elena: approfondimento sulle tragedie dintrigo

In Elena motore dell'azione è týche, il caso, ciò che sfugge alla previsione dell'uomo e determina, al di là della volontà e della coscienza dei protagonisti, il gioco capriccioso degli eventi. Il grande tragediografo ricorre con frequenza agli equivoci, agli intrighi, ai riconoscimenti, fino all'apparizione finale del deus ex machina.

Questa tragedia costituisce il primo esempio che conosciamo di dramma ad intreccio, in cui l'attenzione è rivolta a come si sviluppa la trama, mentre l'aspetto più propriamente tragico passa in secondo piano. Come in una commedia degli equivoci ante litteram, Menelao è convinto di avere con sé la vera Elena e di averla sistemata momentaneamente in una grotta, ma appena arriva a contatto con gli egiziani si trova davanti un'altra Elena, che oltretutto dice di non essere mai stata a Troia. La sorpresa, per l'eroe greco, non doveva essere da poco, e infatti in quest'opera il tragico sconfina continuamente nel comico, creando quindi un dramma godibile e dai toni lievi, suggellato dal lieto fine.

Altri esempi di tragicommedie euripidee sono lo Ione e la perduta Andromeda, che risalgono agli stessi anni dell'Elena. Euripide mise in scena questo genere di opere quando aveva circa settant'anni, a conferma del fatto che nel tragediografo la sperimentazione di nuove forme teatrali non si fermò mai.

26.1.6 La drammaturgia di Euripide

Nella drammaturgia euripidea non c’è più spazio per i misteri solenni del trascendente; oggetto della sua indagine tragica sono i rapporti fra gli uomini che si riflettono nella collettività. Il confronto dellindividuo non è più con la divinità, ma con gli altri uomini e le loro scelte. Le divinità sono sempre presenti nelle opere di Euripide, perché fanno parte del vincolo della tematica mitica e la tragedia era pur sempre un evento anche religioso, tuttavia diventano metafora delle istituzioni che la società ha imposto a se stessa e non sono più descritte come forze irrazionali che regolano il destino umano.

Allinizio della sua carriera teatrale Euripide predilige drammi ad unica azione, svolta in modo rigoroso attraverso unevoluzione delle situazioni e del comportamento dei personaggi, schema al quale tornerà per la rappresentazione delle ultime tragedie. Tuttavia, nella maggior parte delle sue opere, lazione drammatica si divide in due sezioni alle quali vengono spesso accostate scene fini a se stesse, alla maniera di pannello narrativo intorno a un nucleo tematico.

Il coro, nei drammi euripidei, è presente, ma viene relegato in secondo piano, impegnato in canti poetici che sono, però, avulsi dalla trama tragica. Inoltre, dalle tematiche del mito Euripide ricava uno spunto narrativo, ma lo sviluppa in modo inedito, inserendo imprevisti e azioni fortuite che valorizzano un nuovo tipo di tensione drammatica. Tutti questi avvenimenti coinvolgono i personaggi nei meccanismi di un imprevisto che loro stessi devono saper fronteggiare, facendo ricorso e contando solamente sulle proprie forze umane, confrontandosi con la personalità di altri uomini. I personaggi euripidei dimenticano di essere eroi del mito, per vivere ed esprimere i pensieri e i sentimenti delluomo contemporaneo.