L'elegia greca è una distinta forma della poesia lirica della Grecia antica, destinata a una grande fortuna e influsso sulla produzione poetica successiva: oggi il termine elegia ha all'attivo quasi tre millenni di fortuna letteraria.
Il termine italiano è calco del femminile ἐλεγεῖα (eleghéia), mentre il neutro ἐλεγεῖον indica il distico elegiaco, cioè il metro utilizzato per tale poesia. Entrambi i termini non compaiono prima del V secolo a.C., e sono riconnessi alla parola ἔλεγος, parola di uso assai raro in greco e la cui etimologia è contrastante anche presso gli antichi: mentre alcuni (Fozio e L'Etymologicum Gudianum) riportano:
Ἔλεγος. ὁ θρῆνος παρὰ τὸ εὖ λέγειν τοὺς θανόντας (Élegos. ho thrḗnos. parà tò éu légein tous thanóntas, Élegos, lamento, dall'elogio ai morti),
altri lessicografi (Suda, E 774, e Zonara) citano la pseudoetimologia
Ἔλεγος. θρῆνος. ἀπὸ τοῦ ε ε λέγειν (Élegos. thrḗnos. apó toũ e e légein, Élegos, lamento, dal verso ahi ahi).
I linguisti moderni assegnano alla parola un'origine frigia, collegando il termine all'armeno elegn ("flauto").
Rispetto alle altre manifestazioni della lirica greca l'elegia si caratterizza per
esecuzione monodica (in contrapposizione alla lirica corale)
esecuzione recitativa cantilenata con un ridotto sottofondo strumentale di aulos o lyra: la παρακαταλογή (parakatalogé) epica elegiaca e giambica si pone a metà tra il parlato puro e semplice tipico delle parti recitate del dramma e il canto "pieno" e accompagnato da strumentazione e notazione complessa tipico delle composizioni liriche corali.
L'elegia greca, nella tipica distinzione dei generi letterari greci in dialetti, è scritto in una lingua formata da una forte base di lingua omerica con colorito dialetto ionico. Tale impasto è costante: Tirteo scrive in tale lingua elegie destinate ad uditori spartani (e quindi parlanti lingua dorica), testimoniando che la convenzione linguistica era ormai dato assodato. Tale uso fu conservato dai poeti alessandrini e quindi da quelli ellenistici.
Il giambo (in greco antico: ἴαμβος, íambos) è un tipo di piede adoperato nella metrica classica, dallo schema ∪ —. Esso è formato da un'arsi di una sillaba breve e di una tesi di una sillaba lunga, conta tre morae e appartiene al genos diplasion (γένος διπλάσιον), dal momento che il rapporto tra arsi e tesi è 1:2.
L'etimologia del nome giambo resta ignota. Gli antichi accostavano la parola al nome di Ἰάμβη (Iambe), una vecchia serva del re di Eleusi, Celeo, che con le sue battute e scherzi avrebbe indotto a ridere la dea Demetra, inconsolabile a causa della scomparsa della figlia; oppure lo si faceva derivare dal verbo ἰαμβίζω (iambizō), che significa "scherzare, prendere in giro", o da ἰάπτειν, ovvero "scagliare", "colpire". Tali etimologie sono rifiutate dai moderni, che ritengono invece che sia il nome proprio sia il verbo derivino dalla terminazione in -αμβος, che accostano a parole come thriambos e ditirambo, nomi di canti che si riferiscono al culto di Dioniso, e la cui etimologia è di origine anellenica. La connessione del giambo a Demetra e ai culti della fertilità però non sembra casuale, come altre fonti sui misteri eleusini e sugli scherzi rituali ad essi collegati sembrano indicare. In ogni caso il giambo è associato, sin dalla sua presunta origine mitica, allo scherzo, alla battuta, al motteggio, come testimoniano i temi della poesia giambica. Si pensa anche che possa derivare dal nome Ἴαμβος, il figlio di Ares, abile lanciatore di giavellotto, il cui incedere asimmetrico sarebbe paragonato al ritmo zoppicante del giambo, caratterizzato da una sillaba breve e una lunga.
I versi giambici sono, dopo l'esametro, tra i metri greci più antichi. Soli o in unione con altri metri epodici, i metri giambici furono largamente adoperati nella poesia giambica e nella metrica corale e continuarono ad essere usati sia nella poesia alessandrina che in quella latina; nell'età classica, inoltre, il trimetro giambico divenne il metro abituale delle parti parlate della tragedia e della commedia, e il modello da cui i romani trassero il senario giambico.
Di norma, quando il giambo compare in un numero pari di unità, si conta per metri, e non per piedi; cosa che non accade quando i giambi sono dispari. Il giambo ammette molteplici sostituzioni, anche se con forti variazioni a seconda del genere d'uso e del tipo di verso. L'equivalenza del giambo con l'anfibraco (∪ ∪ ∪) mantenendo la misura di tre more, non crea difficoltà; la soluzione spondaica (— —) in cui la prima sillaba lunga è detta irrazionale (si veda metrica classica), non è rara, ma nelle sizigie si incontra solo nel primo giambo di ogni metro; sono possibili anche soluzioni dattiliche (— ∪ ∪) o anapestiche (∪ ∪ —). Il tempo forte, in ogni caso, rimane nella seconda parte del piede. L'arsi, talvolta, poteva essere sincopata; non è chiaro però se la sillaba cadesse semplicemente o se e quando ci fosse protrazione sulla sillaba successiva.