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Libro

Italiano II [PROGRAMMA]

1. STORIA DELLA LINGUA ITALIANA

 

La storia della lingua italiana è la descrizione diacronica delle trasformazioni che la lingua italiana ha conosciuto nel tempo. L'italiano è una lingua romanza, cioè una lingua derivata dal latino, appartenente alla famiglia delle lingue indoeuropee. L'indoeuropeo è una lingua virtuale: essa cioè non è storicamente verificata, ma è stata ricostruita retrospettivamente a partire da diverse lingue, sia moderne sia antiche. Si immagina che un gruppo di tribù, dislocate tra Europa e Asia tra il IV e il III millennio a.C. e parlanti dialetti affini, si sia sparso attraverso diverse migrazioni, assorbendo le parlate dei popoli conquistati. Verso la fine del II millennio a.C., una delle popolazioni indoeuropee, che parlava il dialetto destinato a diventare la lingua latina, si installò nella penisola italiana. Secondo l'idea tradizionale, quindi, in età classica il latino si impose sulle lingue delle popolazioni con cui i Romani si imbatterono nella penisola italiana. Se tra il III e il II secolo a.C. la penisola italiana è ancora costellata da diverse parlate, al tempo di Augusto esse sono ridotte a "vernacoli di scarsa importanza. Il ligure, già profondamente compromesso dall'impatto con le lingue celtiche, viene definitivamente dissolto dall'avanzare del latino.
La guerra sociale (88 a.C.), che vede i Romani sconfiggere le popolazioni italiche, segna il declino dell'etrusco e delle lingue osco-umbre. Bruno Migliorini nota che, a quanto sembra, dell'etrusco "nessuna iscrizione sia posteriore all'era cristiana": pare, comunque, che l'imperatore Claudio (I secolo d.C.), nei suoi studi di etrusco, si avvalesse di parlanti e che la lingua fosse dunque ancora viva. È poi probabile che l'etrusco sia persistito come lingua cultuale fino al IV secolo d.C. e che gli Etrusci haruspices che accompagnavano gli eserciti di Giuliano consultassero libri ancora scritti in etrusco.
Il celtico potrebbe essere sopravvissuto in Gallia (e in particolare nelle Alpi elvetiche) fino al V secolo d.C. e forse oltre.
La persistenza del greco in Calabria e Puglia in età imperiale rimane questione controversa: probabilmente fu il prestigio culturale della lingua e il fatto che fosse lingua ufficiale della parte orientale dell'Impero ad aver tenuta accesa una qualche resistenza, fino al rinnovamento bizantino.
Per definire il rapporto tra latino e italiano è molto importante delineare lo sviluppo del latino parlato, con le sue variazioni diatopiche (da luogo a luogo) e diastratiche (secondo la stratificazione delle classi sociali), in particolare a partire dall'età imperiale.
Il latino parlato correntemente dal popolo non corrispondeva al latino classico, modello letterario codificato da alcuni autori tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. e poi oggetto di studio in epoca moderna. Il cosiddetto latino volgare si presentava in diverse forme, con forti variazioni diatopiche: da esso sorsero le diverse lingue neolatine. Il latino volgare era, in quanto lingua parlata, di gran lunga più sensibile al cambiamento di quanto non fosse il latino della tradizione letteraria. Ciò nonostante esso conservava molti tratti che avevano accompagnato la lingua latina fin dalla sua fase arcaica. Ad esempio, la caduta della -m finale (il fenomeno che ha condotto dall'accusativo fontem all'italiano fonte) si registra già in iscrizioni arcaiche e, per quanto censurato, finì per affermarsi nel Basso Impero: in poesia, peraltro, la -m finale seguita da parola iniziante con a- non veniva pronunciata. Per quel che riguarda le variazioni diastratiche, già le fonti classiche danno conto di quelle dell'epoca: si parla di sermo plebeius, militaris, rusticus, provincialis.
Quanto alle direttrici del cambiamento, si possono indicare per esempio la scomparsa dei casi e la nascita degli articoli. Per quanto riguarda gli articoli, il numerale latino unus, per esempio, che significava anche qualcuno, un tale divenne articolo indeterminativo (unus indeterminativo è usato anche da Ovidio nelle Metamorfosi); alcuni pronomi dimostrativi divennero articoli determinativi e nuovi dimostrativi vennero formati fondendo i vecchi ille e iste con eccu(m). Caddero inoltre le consonanti finali delle parole (es.: amat diventò ama).
Importanti fondamenti del cambiamento del latino parlato sono due fatti storici:
· il regime personale di Ottaviano Augusto (I secolo a.C.-I secolo d.C.), con le sue conseguenze sulla struttura sociale della Roma antica
· il diffondersi del Cristianesimo, rispetto al quale una data importante è certo il 313 (anno dell'Editto di Milano, con cui i due augusti Costantino e Licinio proclamano la libertà religiosa nell'Impero romano), anche se "i privilegi concessi ai Cristiani segnano solo il libero espandersi di peculiarità prima represse".
Esiste una tradizione aneddotica sulla propensione di Augusto verso i volgarismi, forse difficile da valutare, ma certamente sintomatica. Quanto al Cristianesimo, è incalcolabile la sua influenza linguistica: ciò sia per quanto riguarda il lessico, che viene influenzato da una nuova sensibilità e da un nuovo armamentario concettuale, sia per quanto riguarda il rivolgimento a livello di strutture sociali. Il trionfo linguistico del Cristianesimo risale al IV secolo d.C.: per lungo tempo, la lingua dei cristiani è una sorta di lingua speciale, utile per rinserrare "legami sociali e religiosi" tra persone della stessa fede o comunque intente a ragionare sui medesimi (nuovi) concetti.
In questo contesto, è facile constatare che la lingua scritta è più conservativa, anche se sarebbe erroneo concepire latino parlato e latino scritto come due mondi separati: l'influenza delle due forme di espressione fu reciproca e forte, e la stessa lingua parlata dagli analfabeti influì sulla lingua scritta e sorvegliata. Si può osservare che "la lingua letteraria si costituì attraverso una stilizzazione del parlato": ciò accadde ai tempi della Repubblica (convenzionalmente a partire da Livio Andronico, nel 240 a.C.). Le differenze tra parlato e scritto, lievi all'inizio, finiranno per essere assai forti, ma prima dell'Impero lo scarto riguardava più una questione di stile e di registro: non ci troviamo, insomma, affatto di fronte a due lingue diverse. Quando Cicerone scrive a Papirio Peto:
 
«verumtamen quid tibi ego videor in epistolis? Nonne plebeio sermone agere tecum?»
(Lettere familiari, IX, 21)
 
quel plebeio sermone non va certo inteso come latino volgare: Cicerone intende solo "alla buona".
Le cose, comunque, cambiano in età imperiale: anche se le varietà diatopiche delle diverse province dell'Impero restano reciprocamente compatibili, si fa sempre più forte l'influenza del parlato meno colto, il che è particolarmente vero con la cosiddetta crisi del III secolo, "quando [...] l'ignoranza dilaga. Anche in questa fase i grammatici cercano di proteggere la lingua dalla "corruzione", non solo a Roma, ma anche nelle province. La forza innovativa della lingua parlata, almeno fino alla crisi del III secolo, obbedisce comunque agli orientamenti accolti nella capitale o in essa partoriti. Dopo la crisi, invece, il prestigio di Roma è compromesso: le premesse di questa spinta centrifuga possono essere trovate in quella nova provincialium superbia di cui si lamenta il senatore Trasea Peto ai tempi di Nerone (Tacito, Annales, XV, 20) e significative le elezioni a imperatore di personaggi come Traiano e Adriano (nati entrambi a Italica, nei pressi dell'odierna Siviglia) o Antonino Pio e Marco Aurelio (di origine gallica).