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Libro

Italiano IV [PROGRAMMA]

22. VITTORIO ALFIERI

22.1. Le tragedie

Terminata l'Accademia militare a Torino, e dopo un lungo giovanile vagabondare in vari stati dell'Europa, nel 1775 (l'anno della conversione) rientra nella capitale piemontese e si dedica allo studio della letteratura, rinnegando in tal modo - secondo le sue stesse parole - anni di viaggi e dissolutezze; completa così la sua prima tragedia, Antonio e Cleopatra, che registra un grande successo; seguiranno poi Antigone, Filippo, Oreste, Saul, Maria Stuarda, Mirra. La fama delle sue tragedie è legata alla centralità del rapporto libertà-potere e all'affermazione dell'individuo sulla tirannia. Una profonda e sofferta riflessione sulla vita umana arricchisce la tematica quando il poeta si sofferma sui sentimenti più intimi e sulla società che lo circonda.
Le sue tragedie furono in gran parte rappresentate quando il poeta era ancora in vita ed ebbero un notevole successo nel periodo giacobino. Le tragedie più rappresentate nel triennio giacobino italiano (1796-99) furono la Virginia ed i due Bruti. A Milano al Teatro Patriottico nel 1796, il 22 settembre dello stesso anno, Napoleone presenziò ad una replica della Virginia. Il Bruto primo fu replicato anche alla Scala ed a Venezia, mentre a Bologna vennero rappresentate tra il 1796e il 1798 ben quattro tragedie (Bruto II, Saul, Virginia, Antigone). Le reazioni negli spettatori erano spesso molto singolari; ne parla anche il Leopardi nel suo Zibaldone (1823), il quale citando la rappresentazione a Bologna dell'Agamennone racconta che:
«Destò vivissimo interesse negli uditori, e fra l'altro tanto odio verso Egisto, che quando Clitenestra esce dalla stanza del marito col pugnale insanguinato, e trova Egisto, la platea gridava furiosamente all'attrice che l'ammazzasse.»
Alfieri fu contrario alla pubblicazione che fu fatta in Francia dei suoi trattati giovanili in cui esprimeva le sue idee anti-tiranniche in maniera decisa, lasciando trasparire anche un certo anticlericalismo, come il trattato Della tirannide; tuttavia, anche dopo la pubblicazione del Misogallo, non ci fu in lui un rinnegamento di queste posizioni, quanto la scelta del male minore, ovvero il sostegno verso chiunque si opponesse al governo rivoluzionario, che lo faceva inorridire per lo spargimento di sangue del regime del Terrore - sia contro nobili e antirivoluzionari, che contro rivoluzionari non giacobini (i girondini) - e per aver portato la guerra in Italia; secondo Mario Rapisardi egli, che non era anti-riformista (purché il rinnovamento venisse dall'alto, dal legislatore, e non dalla pressione e dalla violenza popolare), aveva paura di essere confuso con i "demagoghi francesi", che incitavano la "plebe". Così si espresse nel trattato sopracitato a proposito della religione cattolica, che egli giudica un mezzo di controllo sul popolo meno istruito (anche se, in fondo, dannoso anche per l'attitudine "da schiavo" che induce in esso), poco valido per un letterato o un filosofo: «Il Papa, la Inquisizione, il Purgatorio, la Confessione, il Matrimonio indissolubile per Sacramento e il Celibato dei preti, sono queste le sei anella della sacra catena» e «un popolo che rimane cattolico deve necessariamente, per via del papa e della Inquisizione, divenire ignorantissimo, servissimo e stupidissimo».La sua accusa alla Rivoluzione è quindi anti-tirannica da una parte e culturale dall'altra, non ritenendo che un culto astratto - come il cosiddetto culto della Ragione o quello dell'Essere supremo - fosse adatto a contenere, con insegnamenti morali, il popolo ignorante dell'epoca. Inoltre, pur detestando parte dell'alto clero e della nobiltà, non approvava l'odio indiscriminato e gli assassini legalizzati di cittadini francesi colpevoli solo di essere di famiglia nobile o membri del basso e medio clero. In una lettera all'abate di Caluso del 1802, Alfieri ribadisce privatamente le sue tesi giovanili (che quasi rinnegava invece pubblicamente, nel Misogallo e nelle Satire): «Il motore di codesti libri fu l'impeto di gioventù, l'odio dell'oppressione, l'amore del vero o di quello che io credeva tale. Lo scopo fu la gloria di dire il vero, di dirlo con forza e novità, di dirlo credendo giovare.(...) Il raziocinio di codesti libri mi pare incatenato e dedotto, e quanto più v'ho pensato dopo, tanto più sempre mi è sembrato verace e fondato; e interrogato su tali punti tornerei sempre a dire lo stesso, ovvero tacerei.(...) In due parole, io approvo solennemente tutto quanto quasi è in quei libri; ma condanno senza misericordia chi li ha fatti e i libri medesimi, perché non c'era bisogno che ci fossero, e il danno può essere maggiore assai dell'utile». Il concetto di libertà, "ribelle" ma non "rivoluzionaria", di Alfieri venne paragonato da Piero Gobetti a quello di Max Stirner, il filosofo tedesco autore del libro L'Unico e la sua proprietà (nato poco più tre anni dopo la morte dell'astigiano), anch'egli "uomo in rivolta" ma anti-rivoluzionario; Alfieri ha, per Gobetti, una «disperata necessità di polemica contro le autorità costituite, i dogmi fatti, le tirannie religiose e politiche», non tollerando minimamente quello che può mettere un freno alla sua libertà individuale. L'unione a questi sentimenti di un certo patriottismo, nella fase finale della vita, è indice della complessità dell'uomo e dell'intellettuale, che non volle essere un filosofo coerente, ma un letterato.