18.2. Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo
Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo
Nello stesso 1624 Galilei cominciò il suo nuovo lavoro, un Dialogo che, confrontando le diverse opinioni degli interlocutori, gli avrebbe consentito di esporre le varie teorie correnti sulla cosmologia – e dunque anche quella copernicana – senza mostrare di impegnarsi personalmente a favore di nessuna di esse. Ragioni di salute e familiari prolungarono la stesura dell'opera fino al 1630: dovette prendersi cura della numerosa famiglia del fratello Michelangelo, mentre il figlio Vincenzio, laureatosi in legge a Pisa nel 1628, si sposò l'anno dopo con Sestilia Bocchineri, sorella di Geri Bocchineri, uno dei segretari del duca Ferdinando, e di Alessandra, che avrà una qualche parte negli ultimi anni della vita del Nostro. Per esaudire il desiderio della figlia Maria Celeste, monaca ad Arcetri, di averlo più vicino, affittò vicino al convento il villino «Il Gioiello». Dopo non poche vicissitudini per ottenere l’imprimaturecclesiastico, l'opera venne pubblicata nel 1632. Nel Dialogo i due massimi sistemi messi a confronto sono quello tolemaico e quello copernicano – Galileo esclude così dalla discussione l'ipotesi recente di Tycho Brahe – e tre sono i protagonisti: due sono personaggi reali, amici di Galileo, e all'epoca già defunti, il fiorentino Filippo Salviati (1582-1614) e il veneziano Gianfrancesco Sagredo (1571-1620), nella cui casa si fingono tenute le conversazioni, mentre il terzo protagonista è Simplicio, un personaggio inventato che richiama nel nome un noto, antico commentatore di Aristotele, oltre a sottintendere il suo semplicismo scientifico. Egli è il sostenitore del sistema tolemaico, mentre l'opposizione copernicana è sostenuta dal Salviati e, svolgendo una funzione più neutrale, dal Sagredo, che finisce però per simpatizzare per l'ipotesi copernicana. L'opera ricevette molti elogi, tra i quali quelli di Benedetto Castelli, di Fulgenzio Micanzio, collaboratore e biografo di Paolo Sarpi, e di Tommaso Campanella, ma già nell'agosto 1632 si diffusero le voci di una proibizione del libro: il Maestro del Sacro Palazzo Niccolò Riccardi aveva scritto il 25 luglio all'inquisitore di Firenze Clemente Egidi che per ordine del Papa il libro non doveva più essere diffuso; il 7 agosto gli chiedeva di rintracciare le copie già vendute e di sequestrarle. Il 5 settembre, secondo l'ambasciatore fiorentino Francesco Niccolini, il Papa adirato accusò Galileo di aver raggirato i ministri che avevano autorizzato la pubblicazione dell'opera. Il 23 settembre l'Inquisizione romana sollecitava quella fiorentina di notificare a Galileo l'ordine di comparire a Roma entro il mese di ottobre davanti al Commissario generale del Sant'Uffizio». Galileo, in parte perché malato, in parte perché spera che la questione possa aggiustarsi in qualche modo senza l'apertura del processo, ritarda per tre mesi la partenza; di fronte alla minacciosa insistenza del Sant'Uffizio, il 20 gennaio 1633 parte per Roma in lettiga. Il processo cominciò il 12 aprile, con il primo interrogatorio di Galileo, al quale il commissario inquisitore, il domenicano Vincenzo Maculano, contestò di aver ricevuto, il 26 febbraio 1616, un «precetto» con il quale il cardinale Bellarmino gli avrebbe intimato di abbandonare la teoria copernicana, di non sostenerla in nessun modo e di non insegnarla. Quel precetto, se mai fu effettivamente mostrato a Galileo nel febbraio del 1616 e se non si tratti persino di un falso costruito ad arte, non reca alcuna firma, né del Bellarmino, né dei testimoni, né di Galileo stesso. Nel maggio successivo Galileo aveva ricevuto la nota lettera del Bellarmino nella quale «si contiene che la dottrina attribuita al Copernico, che la terra si muova intorno al sole e che il sole stia nel centro del mondo senza muoversi da oriente ad occidente, sia contraria alle Sacre Scritture, e però non si possa difendere né tenere». Nella lettera non si menziona esplicitamente il divieto di insegnare la dottrina copernicana, pur nei limiti di una semplice ipotesi scientifica. Nell'interrogatorio Galileo negò di aver avuto conoscenza del precetto e sostenne di non ricordare che nella dichiarazione del Bellarmino vi fossero le parole quovis modo (in qualsiasi modo) e nec docere (non insegnare). Incalzato dall'inquisitore, Galileo non solo ammise di non avere detto «cosa alcuna del sodetto precetto», ma anzi arrivò a sostenere che «nel detto libro io mostro il contrario di detta opinione del Copernico, e che le ragioni di esso Copernico sono invalide e non concludenti». Concluso il primo interrogatorio: Galileo fu trattenuto, «pur sotto strettissima sorveglianza», in tre stanze del palazzo dell'Inquisizione, «con ampia e libera facoltà di passeggiare».La Congregazione del Santo Uffizio, riunitasi il 21 aprile, stabilì che nel Dialogo di Galileo «si difenda, e s'insegni l'opinione riprouata, e dannata dalla Chiesa, et però che l'autore si renda sospetto anco di tenerla».Galileo, nuovamente interrogato il 30 aprile, dichiarò di aver riletto in quei giorni il suo Dialogo «quasi come scrittura nova e di altro autore», ammettendo che un lettore che non conoscesse intimamente l'autore avrebbe avuto l'impressione che egli avesse voluto avvalorare la teoria copernicana. Scusandosi con l'inquisitore per «un errore tanto alieno dalla mia intentione», si offrì di «ripigliar gli argomenti già recati a favore della detta opinione falsa e dannata, e confutargli in quel più efficace modo che da Dio benedetto mi verrà somministrato».Nel costituto del successivo 10 maggio Galileo spiegò che la lettera del Bellarmino (dove non era prescritto il divieto di insegnare la dottrina copernicana) gli aveva fatto dimenticare il precetto dove invece quel divieto era intimato, e giustificò i «mancamenti» del suo Dialogo come dovuti unicamente alla «vana ambizione e compiacimento di comparire arguto oltre al comune de' popolari scrittori, inavertentemente scorsomi dalla penna», dichiarandosi nuovamente pronto a correggere il suo libro. Per concludere il processo, l'Inquisizione doveva verificare la sincerità dell'affermazione di Galileo di «non tenere la dannata opinione»: a questo scopo, il 16 giugno la Congregazione stabilì che «Galileo fosse interrogato sulla sua intenzione, anche comminandogli la tortura e se l'avesse sostenuta, previa abiura de vehementi di fronte alla Congregazione, fosse condannato al carcere ad arbitrio della Santa Congregazione, con l'ingiunzione di non trattare più, né per scritto né verbalmente, sulla mobilità della Terra e sull'immobilità del Sole».Il 21 giugno Galilei fu interrogato per l'ultima volta: alla domanda se tenesse ancora, o avesse tenuto in passato, e per quanto tempo, la teoria della centralità del Sole, Galilei rispose che un tempo aveva ritenuto le opinioni di Tolomeo e di Copernico entrambe «disputabili, perché o l'una o l'altra poteva esser vera in natura», ma dopo la proibizione del 1616, sostenne di tenere, da allora e tuttora, «per verissima e indubitata l'opinione di Tolomeo». Richiesto di spiegare perché mai avesse allora difeso l'opinione di Copernico nel suo Dialogo, Galileo rispose di aver voluto soltanto spiegare le ragioni delle due opinioni, convinto che nessuna avesse forza dimostrativa, così che «per procedere con sicurezza si dovesse ricorrere alla determinazione di più sublimi dottrine». All'insistenza dell'inquisitore di dire la verità, altrimenti si sarebbe agito «contro di lui con gli opportuni rimedi di diritto e di fatto», Galileo negò di aver mai sostenuto l'opinione di Copernico: «del resto, son qua nelle loro mani; faccino quello gli piace». All'esplicita minaccia di ricorrere alla tortura, Galileo rispose soltanto: «Io son qua per far l'obedienza, e non ho tenuta questa opinione dopo la determinazione fatta, come ho detto». Il verbale del costituto conclude che, «non potendosi avere niente altro in esecuzione del decreto, avuta la sua sottoscrizione, fu rimandato al suo luogo».Il giorno dopo, 22 giugno, nella sala capitolare del convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, presente e inginocchiato Galileo, fu emessa la sentenza dai cardinali Gaspare Borgia, Felice Centini, Guido Bentivoglio, Desiderio Scaglia, Antonio e Francesco Barberini, Laudivio Zacchia, Berlinghiero Gessi, Fabrizio Verospi e Marzio Ginetti, «inquisitori generali contro l'eretica pravità», nella quale si riassumeva la lunga vicenda del contrasto fra Galileo e la dottrina della Chiesa, cominciata dal 1615 con lo scritto Delle macchie solari e l'opposizione dei teologi nel 1616 al modello Copernicano. Nella sentenza si sosteneva poi che il documento ricevuto nel febbraio 1616 fosse una effettiva ammonizione a non difendere o insegnare la teoria copernicana. Ricordato che egli scrisse poi il suo Dialogo «senza però significare a quelli che ti diedero simile facoltà, che tu avevi precetto di non tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia modo tale dottrina», nella sentenza si sottolinea che il libro insegna la dottrina copernicana; quanto alle personali convinzioni di Galileo, nel processo fu ritenuto «necessario venir contro di te al rigoroso esame, nel quale [...] rispondesti cattolicamente». Essendosi reso pertanto «veementemente sospetto d'eresia», Galileo era incorso nelle censure e pene previste «contro simili delinquenti». Imposta l'abiura «con cuor sincero e fede non finta» e proibito il Dialogo, Galilei venne condannato al «carcere formale ad arbitrio nostro» e alla «pena salutare» della recita settimanale dei sette salmi penitenziali per tre anni, riservandosi l'Inquisizione di «moderare, mutare o levar in tutto o parte» le pene e le penitenze.Se la leggenda della frase di Galileo, «E pur si muove»,pronunciata appena dopo l'abiura, serve a suggerire la sua intatta convinzione della validità del modello copernicano, la conclusione del processo segnava la sconfitta del suo programma di diffusione della nuova metodologia scientifica, fondata sull'osservazione rigorosa dei fatti e sulla loro verifica sperimentale – contro la vecchia scienza che produce «esperienze come fatte e rispondenti al suo bisogno senza averle mai né fatte né osservate» – e contro i pregiudizi del senso comune, che spesso induce a ritenere reale qualunque apparenza: un programma di rinnovamento scientifico, che insegnava «a non aver più fiducia nell'autorità, nella tradizione e nel senso comune», che voleva «insegnare a pensare».La sentenza di condanna prevedeva un periodo di carcere a discrezione del Sant'Uffizio e l'obbligo di recitare per tre anni, una volta alla settimana, i salmi penitenziali. Il rigore letterale fu mitigato nei fatti: la prigionia consistette nel soggiorno coatto per cinque mesi presso la residenza romana dell'ambasciatore del Granduca di Toscana, Pietro Niccolini, a Trinità dei Monti e di qui, nella casa dell'arcivescovo Ascanio Piccolomini a Siena, su richiesta di questi. Quanto ai salmi penitenziali, Galileo incaricò di recitarli, con il consenso della Chiesa, la figlia Maria Celeste, suora di clausura. A Siena il Piccolomini favorì Galileo permettendogli di incontrare personalità della città e di dibattere questioni scientifiche. A seguito di una lettera anonima che denunciò l'operato dell'arcivescovo e dello stesso Galileo,il Sant'Uffizio provvide, accogliendo una stessa richiesta avanzata in precedenza da Galilei, a confinarlo nell'isolata villa («Il Gioiello») che lo scienziato possedeva nella campagna di Arcetri. Nell'ordine del 1º dicembre 1633 si intimava a Galileo di «stare da solo, di non chiamare né di ricevere alcuno, per il tempo ad arbitrio di Sua Santità».Solo i familiari potevano fargli visita, dietro preventiva autorizzazione: anche per questo motivo gli fu particolarmente dolorosa la perdita della figlia suor Maria Celeste, l'unica con cui avesse mantenuto legami, avvenuta il 2 aprile 1634. Poté tuttavia mantenere corrispondenza con amici ed estimatori, anche fuori d'Italia: a Elia Diodati, a Parigi, scrisse il 7 marzo 1634, consolandosi delle sue sventure che «l'invidia e la malignità mi hanno machinato contro» con la considerazione che «l'infamia ricade sopra i traditori e i costituiti nel più sublime grado dell'ignoranza». Dal Diodati seppe della traduzione in latino che Matthias Bernegger andava facendo a Strasburgo del suo Dialogo e gli riferì di «un tal Antonio Rocco [...] purissimo peripatetico, e remotissimo dall'intender nulla né di matematica né d'astronomia» che scriveva a Venezia «mordacità e contumelie» contro di lui. Questa, e altre lettere, dimostrano quanto poco Galileo avesse rinnegato le proprie convinzioni copernicane.