Il principe (titolo assegnato nell'edizione originale postuma di Antonio Blado e poi unanimemente adottato, ma il titolo originario era in lingua latina: De Principatibus, "Sui principati") è un trattato di dottrina politica scritto da Niccolò Machiavelli nel 1513, nel quale espone le caratteristiche dei principati e dei metodi per mantenerli e conquistarli. Si tratta senza dubbio della sua opera più nota e celebrata, quella dalle cui massime (spesso superficialmente interpretate) sono nati il sostantivo "machiavellismo" e l'aggettivo "machiavellico". L'opera non è ascrivibile ad alcun genere letterario particolare, in quanto non ha le caratteristiche di un vero e proprio trattato; ma nel periodo umanista si erano molto diffusi i trattati sul sovrano ideale anche chiamati "specula principis" (ovvero specchi del principe), che elencavano tutte le virtù che un sovrano avrebbe dovuto avere per poter governare correttamente, prendendo spunto dalla storia e dai classici latini e greci. Il Principe si compone di una dedica e ventisei capitoli di varia lunghezza; l'ultimo capitolo consiste nell'appello ai de' Medici ad accettare le tesi espresse nel testo. Per raggiungere il fine di conservare e potenziare lo Stato, viene popolarmente e speculativamente attribuita a Machiavelli la massima "il fine giustifica i mezzi" secondo la quale qualsiasi azione del Principe sarebbe giustificata, anche se in contrasto con le leggi della morale. Questa attribuzione, più ascrivibile a Ovidio (Cfr. "Heroides" con "exitus acta probat") è perlomeno dubbia dato che non trova riscontro nel Principe e nemmeno in altre opere dell'autore e dato che, in merito a questa questione, vi sono elementi contraddittori all'interno dell'opera.Tale aforisma potrebbe, forzandone l'interpretazione, essere dedotto in questo passaggio: «... e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno lodati.» Pur non essendo letteralmente uguale a quella che conosciamo, il senso è evidentemente molto simile alla sua forma popolare. Il punto è che nel testo del Principe la frase è riferita espressamente ad azioni legate alla ragion di stato, dunque generalizzarla a qualunque fine, il più onesto ma anche il più immondo, è una deformazione piuttosto grossolana e fuorviante. Machiavelli in un altro passaggio, sempre in riferimento al Principe, spiega che cosa sia la pazzia, contraddicendo in parte quanto detto sopra: «perché un principe che può fare quello che vuole è un pazzo; un popolo che può fare ciò che vuole non è savio.» Perciò è pazzo colui che crede di poter dire e di poter fare quello che vuole. In altre parole è pazzo colui che pensa che il fine giustifichi i mezzi. In Machiavelli, la salvezza dello Stato è necessaria e deve venire prima delle personali convinzioni etiche del Principe, poiché egli non è il padrone, bensì il servitore dello Stato. Il metodo di indagine utilizzato da Machiavelli ha il carattere della scientificità d'indagine in quanto si serve del metodo induttivo e di quello deduttivo. Il primo metodo parte dall'osservazione di un'esperienza precisa e dei dati ricavati per risalire alle norme generali che hanno sempre regolato l'agire dell'uomo politico; il secondo metodo parte da tesi sicure e utilizza fatti o esempi storici a sostegno delle tesi espresse. Le qualità che, secondo Machiavelli, deve possedere un "principe" ideale (ma non idealizzato), sono tuttora citate nei testi sulla leadership:
la disponibilità ad imitare il comportamento di grandi uomini a lui contemporanei o del passato, es. quelli dell'Antica Roma;
la capacità di mostrare la necessità di un governo per il benessere del popolo, es. illustrando le conseguenze di un'oclocrazia;
il comando sull'arte della guerra - per la sopravvivenza dello stato;
la capacità di comprendere che la forza e la violenza possono essere essenziali per mantenere stabilità e potere;
la prudenza;
la saggezza di cercare consigli soltanto quando è necessario;
la capacità di essere "simulatore e gran dissimulatore";
il rilevante potere di controllo della fortuna attraverso la virtù (la metafora utilizzata accosta la fortuna ad un fiume, che deve essere contenuto dagli argini della virtù);
la capacità di essere leone, volpe e centauro (leone forza - volpe astuzia - centauro come capacità di usare la forza come gli animali e la ragione come l'uomo)
Secondo Machiavelli la natura umana è una natura malvagia che presenta alcuni fattori, quali le passioni, la virtù e la fortuna. Il frequente ricorso ad exempla virtutis tratti dalla storia antica e dalla sua esperienza nella politica moderna dimostrano che nella sua concezione della storia non vi è alcuna netta frattura tra il mondo degli antichi e quello dei moderni; Machiavelli trae così dalla lezione della storia delle leggi generali, le quali non vanno però intese come norme infallibili, valide in ogni contesto e situazione, ma come semplici tendenze orientanti l'azione del Principe che devono sempre confrontarsi con la realtà. Non vi è alcuna esperienza tràdita dal passato che non possa essere smentita da una nuova esperienza presente; tale mancanza di scientificità spiega la mancata sottomissione di Machiavelli alla auctoritas degli antichi: reverenza ma non ossequio nei suoi confronti; gli esempi storici sono utilizzati per un'argomentazione non scientifica ma retorica. La pace è fondata sulla guerra esattamente come l'amicizia è fondata sull'uguaglianza, quindi in ambito internazionale l'unica uguaglianza possibile è l'uguale potenza bellica degli Stati. La forza della sopravvivenza di qualsiasi Stato (democratico, repubblicano o aristocratico) è legata alla forza dell'esercizio del suo potere, e quindi deve detenere il monopolio legittimo della violenza, per assicurare sicurezza interna e per prevenire una 'potenziale' guerra esterna (in riferimento ad una delle lettere proposte al Consiglio Maggiore di Firenze (1503), con la speranza di Machiavelli di convincere il Senato fiorentino all'introduzione di una nuova imposta per rafforzare l'esercito, necessario per la sopravvivenza della Repubblica Fiorentina). Il termine virtù in Machiavelli cambia significato: la virtù è l'insieme di competenze che servono al principe per relazionarsi con la fortuna, cioè gli eventi esterni. La virtù è quindi un insieme di energia e intelligenza, il principe deve essere intelligente ma anche efficace ed energico. La virtù del singolo e la fortuna si implicano a vicenda: le doti del politico restano puramente potenziali se egli non trova l'occasione adatta per affermarle, e viceversa l'occasione resta pura potenzialità se un politico virtuoso non sa approfittarne. L'occasione, tuttavia, è intesa da Machiavelli in modo peculiare: essa è quella parte della fortuna che si può prevedere e calcolare grazie alla virtù. Mentre un esempio di fortuna può essere che due Stati siano alleati, un esempio di occasione è il fatto che bisogna allearsi con qualche altro Stato o comunque organizzarsi per essere pronti ad un loro eventuale attacco. Machiavelli nei capitoli VI e XXVI scrive che occorreva che gli ebrei fossero schiavi in Egitto, gli Ateniesi dispersi nell'Attica, i Persiani sottomessi ai Medi perché potesse rifulgere la "virtù" dei grandi condottieri di popoli come Mosè, Teseo e Ciro. La virtù umana si può poi imporre alla fortuna attraverso la capacità di previsione, il calcolo accorto. Nei momenti di calma l'abile politico deve prevedere i futuri rovesci e predisporre i necessari ripari, come si costruiscono gli argini per contenere i fiumi in piena. Machiavelli parla molto della libertà delle repubbliche: questa libertà non è la libertà dell'individualismo moderno ma è una situazione che riguarda gli equilibri di forze nello stato, tali per cui si deve determinare il predominio di uno solo. Quella di Machiavelli è la libertà che si ha allorché i diversi gruppi o ceti che compongono lo stato sono tutti coinvolti nella gestione della decisione politica; non è la libertà intesa in senso moderno, cioè la libertà del singolo dal potere dello stato, ma è più vicina all'idea di libertà antica che si ha quando s'interviene alle decisioni politiche. La libertà di Machiavelli ammette il conflitto: il conflitto non è in sé una causa di debolezza ma dà dinamicità al complesso politico, lo mantiene vitale; questa vitalità produce progresso in quanto lascia aperti spazi di libertà che consistono nella prerogativa di ciascuno d'intervenire alle decisioni politiche confliggendo con le altre parti. In questo il pensiero di Machiavelli è diverso dall'idea classica di ordine politico come "soluzione dei conflitti". Gli antichi vedevano difatti nel conflitto un elemento d'instabilità della comunità politica. Machiavelli concepisce la religione come Instrumentum regni, cioè un mezzo con il quale tenere salda e unita la popolazione nel nome di un'unica fede. La religione per Machiavelli è quindi una religione di Stato che deve essere usata per fini eminentemente politici e speculativi, uno strumento di cui il principe dispone per ottenere il consenso comune del popolo, quest'ultimo ritenuto fondamentale dal segretario fiorentino per l'unità e la lungimiranza del principato stesso. La religione nell'Antica Roma, che riuniva tutte le divinità del pantheon romano, è stata fonte di saldezza e unità per la Repubblica e più tardi per l'Impero e su questo esempio illustre Machiavelli incentra il suo discorso sulla religione, criticando la religione cristiana e la Chiesa cattolica che, secondo la sua opinione, aveva un'influenza negativa sugli uomini, in quanto li induceva alla mitezza, alla rassegnazione, alla svalutazione del mondo e della vita terrena ed era la causa della mancata unità nazionale italiana. Lo stile è quello tipico di Machiavelli, cioè molto concreto in quanto deve essere in grado di fornire un modello immediatamente applicabile, non sono presenti particolari ornamentazioni retoriche, piuttosto fa massiccio uso di paragoni e similitudini (come la metafora del centauro per evidenziare l'unione tra fisicità, energia e intelligenza che insieme costituiscono la virtù di Machiavelli) e metafore tutte basate sulla concretezza, per esempio le metafore arboree spesso presenti. Numerosissimi sono i riferimenti ad eventi del suo presente, soprattutto riguardanti il regno di Francia, ma anche dell'antichità classica, si riferisce all'Impero Persiano di Ciro, a quello Macedone di Alessandro Magno, alle poleis greche e alla storia romana. Machiavelli costruisce quindi il suo modello osservando la realtà, questo è il concetto di realtà effettuale. Il lessico non è aulico ma quasi un sermo cotidianus (nella questione della lingua Machiavelli sostenne l'utilizzo del fiorentino parlato). Tutto il testo è caratterizzato da un lessico connotativo e una forte espressività, esclusi la Dedica e l'ultimo capitolo che hanno un registro diverso dalla parte centrale, infatti in entrambi prevale il carattere enfatico e specialmente la perorazione finale fuoriesce dalla realtà effettuale che caratterizza l'opera. La sintassi è molto articolata con prevalenza della ipotassi; la subordinazione è presente soprattutto nel processo dilemmatico, che è una delle caratteristiche di quest'opera, Machiavelli presenta due situazioni: la prima viene svolta rapidamente per poi discutere ampiamente la seconda, questa tecnica fornisce un carattere di scientificità all'opera e suggerisce l'ipotesi giusta secondo l'autore (esempio: nel Capitolo I Machiavelli propone la trattazione De' principati ereditarii e De' principati misti: la prima viene sviluppata in poche righe nel Capitolo II mentre la seconda viene ampiamente argomentata nel Capitolo III). I titoli dei capitoli sono tutti in Latino (con corrispondente traduzione in Italiano probabilmente fatta dallo stesso Machiavelli), perché nell'ambiente umanista-rinascimentale si usava scrivere o almeno titolare le opere in latino, in quanto esso conferiva dignità e prestigio al testo. Machiavelli nel Principe teorizza, come ideale, un principato assoluto, nonostante che egli si sia formato nella scuola repubblicana e abbia sempre creduto nei valori della repubblica; il suo modello è la Repubblica romana, che Machiavelli esalta nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, con la partecipazione diretta del popolo. I critici risorgimentali sostennero la tesi che il Principe fosse una specie di manuale delle nefandezze della tirannide, celebre l'immagine del Foscolo dei Sepolcri ("quel grande che temprando lo scettro ai regnatori gli allor ne sfronda ed alle genti svela di che lagrime grondi e di che sangue"). Il dibattito su questa questione è tuttora aperto, tra le ipotesi c'è anche quella dell'opportunismo: Machiavelli avrebbe desiderato riottenere un posto politico di rilevanza e sarebbe stato quindi disposto anche ad accettare la dimensione monarchica, oppure, il suo principe, potrebbe essere un modello universale di capo di Stato, di qualunque forma esso sia, monarchia o repubblica. La critica moderna ha però ultimamente ipotizzato che la volontà di scrivere il Principe, e quindi di parlare di monarchia, sia stata mossa dall'aggravarsi della situazione in Italia. Difatti alla fine del '400 ed inizio del '500, l'Italia si trovava in un periodo di continue lotte interne. Machiavelli, attraverso il suo trattato, avrebbe voluto quindi incitare i principati italiani a prendere le redini del paese, ormai sommerso da queste continue guerre, credendo che l'unico modo per riacquistare valore, in quel preciso periodo, fosse proprio un governo di tipo monarchico. È dunque questo il motivo che ha suscitato numerose critiche per lo più fuorvianti.