9.2. La questione della lingua e il modello bembiano
Con l'espressione ‘questione della lingua’ si indica una disputa di carattere sociale vertente sul problema di quale modello linguistico adottare nella penisola italiana; sorta in ambito letterario, ebbe la sua fase più acuta agli inizi del Cinquecento, per poi protrarsi con alterne vicende (almeno) fino ad Alessandro Manzoni. L'origine del dibattito può ricercarsi nel De vulgari eloquentia di Dante. In esso si riprendeva l'allora comunemente accettata 'teoria della monogenesi' di tutte le lingue del mondo (che sarebbero derivate dall'idioma di Adamo: l'ebraico, la lingua delle Sacre Scritture); inoltre, si identificava la lingua volgare con lo sviluppo delle varietà plebee locali già parlate nell'antichità a seguito dell'episodio della Torre di Babele (in cui Dio avrebbe punito gli uomini facendo sì che le lingue da essi parlate si differenziassero tra loro). Il latino, lingua d'uso internazionale (allora generalmente adoperata nelle scritture e nei discorsi ufficiali), era definito da Dante come gramatica per antonomasia, cioè lingua convenzionale creata artificialmente perfetta. Tuttavia il volgare d'Italia, suddiviso al suo interno in quattordici principali ripartizioni dialettali, grazie alla Scuola poetica siciliana aveva meritato di elevarsi all'uso scritto. Restava però aperto il problema sulla conformazione di quel volgare illustre, il quale, secondo Dante, avrebbe dovuto avvalersi del concorso di tutti i dialetti d'Italia. È interessante osservare che Dante, nella propria opera letteraria, non tentò di 'inventare' un volgare panitaliano, ma anzi adottò il nativo fiorentino – pur criticando a livello teorico il toscano: «si tuscanas examinemus loquelas [...] non restat in dubio quin aliud sit vulgare quod querimus quam quod actingit populus Tuscanorum», ovvero 'se esaminiamo le parlate toscane [...] non c'è dubbio che altro sia il volgare che cerchiamo rispetto a ciò cui attinge il popolo toscano'. Si possono citare, fra i tratti non pan italiani del fiorentino di quel tempo,
il condizionale di tipo canterei rispetto a cantaria;
la prima persona del presente indicativo unificata con il congiuntivo: parliamo, viviamo, finiamo (< -eamus, ecc.), rispetto all'analogico: *parlamo, *vivemo, *finimo (< -amus, ecc.).
Tuttavia, nel corso del Quattrocento si perse memoria del De Vulgari, che sopravviveva in pochissimi esemplari. Quando nel 1529 Gian Giorgio Trissino lo ripropose in una sua traduzione alla pubblica opinione molti sostennero che Dante non avrebbe mai potuto scrivere tale opera, accusando il Trissino di mistificazione. Nel frattempo la questione si era riaperta e sviluppata per altre vie grazie all'affermarsi del volgare toscano. Per la scelta di quale lingua utilizzare per la penisola italiana si cominciarono a formare tre correnti ognuna delle quali sosteneva un volgare diverso:
la corrente detta cortigiana sosteneva di dover usare la lingua parlata nelle corti
la corrente fiorentina sosteneva di dover usare il volgare fiorentino reso pubblico da Dante, Petrarca e Boccaccio
la corrente arcaizzante sosteneva di dover prendere le parole più eleganti dai diversi volgari
In pieno Umanesimo la questione della lingua si fece più accesa, anche in conseguenza dell'avvento della stampa, la quale rendeva necessaria, ovviamente, la presenza di una norma coerente e omogenea a livello nazionale. A quel tempo Venezia era la capitale europea dell'editoria, in contrasto con Firenze. Fu proprio da queste due città che nacquero le due maggiori scuole di pensiero, Veneta e Toscana: la prima affermava il suo predominio a livello europeo nell'editoria e quindi nella comunicazione, la seconda rivendicava la cittadinanza dei grandi letterati trasformatori della lingua (Dante, Petrarca, Boccaccio). Sempre al modello fiorentino, ma a quello contemporaneo, si ispirava la posizione espressa da Niccolò Machiavelli nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua. Punto di svolta rappresentò la pubblicazione delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, il quale seppur veneziano di nascita, propose come lingua il toscano trecentesco, lingua letteraria per eccellenza, punto di comunicazione tra gli autori del passato e i posteri. Nel terzo libro del suo trattato egli redasse una vera e propria grammatica del toscano letterario, fondato essenzialmente sull'uso dei grandi autori trecenteschi: Dante, ma soprattutto Boccaccio e Petrarca, di cui Bembo possedeva tra l'altro l'autografo del Canzoniere. La questione si risolse di fatto con l'affermazione del modello bembiano, e quindi con la sanzione della lingua letteraria toscana. Dante venne escluso dal canone degli autori che facevano testo in materia di lingua in quanto il lessico del poeta era più vasto e meno riapplicabile; egli, inoltre, utilizzava vocaboli ora di livello alto ora di livello basso (è noto che nella Divina Commedia compare, ad esempio, la parola "cul"). Il dibattito sulla questione della lingua non si limita tuttavia al solo sec. XVI, ma prosegue fino al Novecento, con momenti di particolare vivacità nel Settecento illuminista e nell'Ottocento, soprattutto all'inizio del secolo, e dopo l'unificazione politica italiana, quando Manzoni rese pubblica la Relazione richiestagli dal ministro dell'Istruzione Broglio, nella quale si suggerivano metodi e strumenti per unificare la lingua nel Regno da poco costituito. Questo intervento di Manzoni riaccese il dibattito, che proseguì con il linguista Graziadio Isaia Ascoli, e con il filosofo Benedetto Croce.