Nel III secolo l'Impero romano iniziava a tramontare, il che si palesava non solo nell'indebolimento delle forze politiche e militari, ma anche nello sfaldamento dell'ordinamento interno e soprattutto nell'imbarbarimento della cultura. La crisi generale e l'accettazione di molte genti non italiche tra i cittadini romani provocarono una lenta ma significativa deviazione dalla lingua latina ufficiale verso forme dialettali e meno sofisticate. Si evidenziò la necessità di uno "sviluppo" della lingua che presupponeva la canonizzazione della parlata popolare e della sua semplice grammatica. Erano i primi sintomi della nascita di una nuova lingua, quella italiana, che avrebbe necessitato di un millennio per svilupparsi pienamente. Durante questo lunghissimo tempo di transizione, in tutta la penisola ci fu un'enorme incertezza linguistica. Il latino classico stava lentamente cedendo il posto ad una mescolanza di nuovi idiomi che combattevano per la sopravvivenza e la supremazia. Gli effetti di questo lungo periodo di transizione sono ben visibili soprattutto nelle traduzioni che via via nascevano dal latino verso l'italiano, proprio perché la linea di demarcazione tra le due lingue era fluttuante e perché nessuno dei traduttori poteva dirsi un vero esperto in materia. Lorenzo Valla fu il primo a stabilire un limite alla modernizzazione della lingua latina, decidendo che i cambiamenti oltre tale limite facessero già parte del processo di sviluppo della lingua italiana. In questo modo riuscì non solo a salvaguardare la purezza del latino, ma pose anche le basi per lo studio e la comprensione dell'italiano. Lorenzo Valla si pone tra i maggiori esponenti del Quattrocento italiano e dell'umanesimo europeo, non solo per il suo costante apporto di punti di vista assolutamente umanistici, bensì anche per la sua annosa avversione ai barbarismi della cultura scolastica. È indicativa ad esempio la sua tesi (in De Voluptate) sugli errori dello stoicismo praticato dagli asceti cristiani che non avrebbero preso in debita considerazione le leggi naturali, dunque divine; la morale consiglierebbe infatti un'esistenza allegra e godereccia che non potrebbe in alcun modo precludere l'aspirazione alle gioie postume del paradiso. Analogamente, nelle Dialecticae Disputationes Valla confuta il dogmatismo di Aristotele e la sua arida logica che non offre insegnamenti o consigli, bensì discute solo di parole senza raffrontarle con il loro significato nella vita reale. Altrettanto critico si dimostra (nelle Adnotationes in Novum Testamentum) quando usa la sua profonda padronanza del latino per provare che sono state le traduzioni maldestre di alcuni passi del Nuovo Testamento a causare incomprensioni ed eresie.